Alias

Labbra cucite per dimenticare ogni piacere

Clitoride E Libertà Intervista a Nahid Toubia, prima donna medico chirurgo del Sudan, ricercatrice e attivista dei diritti di salute sessuale e riproduttiva, femminista. La sua casa è anche una clinica

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 7 novembre 2015

«La notte prima del mio primo discorso pubblico sulle mutilazioni genitali femminili (MGF) la passai insonne chiedendomi cosa fosse giusto, se evitare di mettermi nei guai o dire quello che pensavo. Nel 1983 il Presidente Ja’far al-Nimeyri, anche se non era conservatore, aveva introdotto la Shari’a nel codice penale. In Sudan avevano cominciato a usare le donne per tormentare la popolazione. Io ero stata l’unica donna incarcerata per la protesta organizzata da tutti noi medici, eravamo 5-600, quando ci dimettemmo in massa per paralizzare il Paese. Tuttavia, decisi che avrei detto tutto quello che sapevo, così di fronte al pubblico presi un gesso, disegnai sulla lavagna la clitoride, e parlai dell’importanza dei genitali femminili esterni dal punto di vista scientifico. Andò bene».

A parlarmi con passione e determinazione è Nahid Toubia, classe 1951, prima donna medico chirurgo del Sudan. Siamo a Khartoum, nella villa che oltre ad essere la sua casa è anche una clinica e un centro per donne. Come a dire che nella sua vita il privato, il politico e il lavoro non sono sfere separate. Anche un tutt’uno nella sua visione sono l’abolizione delle MGF e la liberazione delle donne: «Non si tratta della pratica di un rito tradizionale dannoso, ma del controllo della sessualità e di tutta l’autonomia delle donne. La questione va affrontata radicalmente: il punto è di abolire le mutilazioni e liberare le donne. Se si smette di mutilare le donne, ma si continua a controllarle, non ci sto. Ai medici occidentali che propongono di operare sotto anestesia un taglio simbolico in ospedali asettici io dico che non si tratta del taglio né del dolore, delle emorragie o delle infezioni, ma di molto di più: del diritto delle donne di controllare totalmente il loro corpo e la loro vita, perché la loro sessualità comprende decidere se e con chi fare sesso, se e con chi sposarsi, se fare o non fare figli». E aggiunge: «Ora sono aperta al dialogo con l’Occidente, ma all’inizio pensavo che le MGF fossero una questione africana che andava affrontata solo dalle donne africane, perché c’è stato molto abuso, molta prepotenza nell’interferenza occidentale su ciò che è africano, arabo e musulmano. Dopo trent’anni di lavoro sull’argomento sono disposta ad accettare la partecipazione di tutti, perché credo che i diritti umani siano universali e appartengano a tutti, però la leadership di una questione di donne africane deve appartenere alle donne africane».

Sono in Sudan con l’incarico di documentare fotograficamente il programma di sostegno ai servizi sanitari nell’Est del Sudan (‘Promoting Qualitative Health Services’) finanziato dall’Unione Europea e implementato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Il programma opera sinergicamente collaborando con i ministeri e le autorità locali, riabilitando e costruendo opere civili, fornendo attrezzatura medica, medicinali e assistenza tecnica, finanziando corsi e borse di studio, formando operatori sanitari e levatrici. Sono queste ultime che mi hanno avvicinata alla realtà delle MGF, che riguarda ancora quasi il 90% delle sudanesi secondo la dottoressa Toubia, anche se non esistono dati certi. Le levatrici tradizionali qui praticano l’infibulazione, che consiste nell’asportazione della clitoride, delle piccole labbra e parte delle grandi, e nella cucitura della vulva lasciando aperto solo un piccolo foro. La cucitura viene aperta parzialmente per la prima notte di nozze e totalmente per il parto, per essere poi richiusa in parte per garantire il piacere del marito e del tutto se la donna divorzia o diventa vedova.

La formazione delle levatrici è fondamentale per la consapevolezza delle conseguenze negative delle MGF e la diffusione di tale consapevolezza tra le donne. Inoltre, la preparazione professionale per affrontare parti più complicati proprio per le stesse mutilazioni può salvare la vita dei bambini e delle mamme.

Viaggiando per 6 settimane dalla capitale ai villaggi di fango e paglia più remoti negli stati di Gedaref, Cassala e Mar Rosso alla domanda «Qual è il tuo sogno più grande?» posta a tutte le bambine e le ragazze con cui ho parlato mi sono sentita dire «Diventare medico o insegnante».

Come ha fatto a realizzarlo per prima Nahid Toubia? «Vengo da una famiglia di cristiani copti, il che non implica necessariamente maggiore apertura mentale, ma nel mio caso i miei genitori erano davvero progressisti. Mia madre mi ha chiamata Nahid in onore della Sirri, femminista egiziana degli anni ’40, e mio padre mi ha sempre sostenuta. Vivevamo in una piccola comunità liberale e cosmopolita di Khartoum, in cui i Cristiani e Musulmani erano più vicini di adesso. Sono sempre stata molto determinata, a partire dalla mia scelta di abbandonare le scuole private a 12 anni per le pubbliche, perché le prime non preparavano le ragazze all’università, ma a diventare mogli educate. Sono stata molto femminista e ho sempre avuto lo scopo di sfondare il muro delle restrizioni imposte alle donne. Ho studiato sodo e a 30 anni sono diventata la prima donna medico chirurgo del Paese. Sappi che in Sudan c’è una forte dicotomia: da una parte la politica di Omar al-Bashir e l’arretratezza dell’islamizzazione, dall’altra un incredibile miglioramento sociale dovuto all’evoluzione della società – ai viaggi, all’urbanizzazione, all’istruzione, a internet.

Da una parte si frustano le donne che indossano i pantaloni, dall’altra ci sono 66 università frequentate direi al 60% da studentesse che non si fermeranno. Le donne sono velate ma esercitano ogni tipo di professione anche perché c’è una massiccia emigrazione verso i Paesi del Golfo e l’Occidente, e sono soprattutto gli uomini a espatriare, mentre le donne restano e conquistano posizioni un tempo impensabili».

Le chiedo di tornare alla sua storia. Va bene ottenere la laurea, ma come riuscire a lavorare e vivere in un Paese dove le donne sono incarcerate e frustate per il solo fatto di camminare per strada con un uomo che non sia un parente stretto, dove le madri continuano a far mutilare le figlie perché è l’unico modo per far sì che si sposino, cioè siano accettare dalla società? Come ha potuto farlo lei, che è dichiaratamente non religiosa, che non si è mai sposata e che ha adottato una bambina di pochi giorni delle strade di Omdurman (sua figlia, che ha ora 19 anni)? «Dopo la laurea nel 1981 iniziai a lavorare come chirurgo pediatra nel più grande ospedale di Khartoum e più tardi aprii la mia clinica privata, il primo pronto soccorso aperto 24 ore tutti i giorni. Avevo capito che per essere intoccabile dovevo rendermi indispensabile, e la clinica era così necessaria che lo divenni, nonostante tutto quello che dicevano di me. La Shari’a fu introdotta nel 1983, ma Nimeyri la usò solo come un trucco per affrontare l’immensa crisi economica che si trovò di fronte. Fino allora il Sudan era un Paese rurale e tradizionale, in parte africano e in parte arabo, che si sviluppava molto lentamente. A seguito del mio arresto per l’opposizione all’islamizzazione ero regolarmente molestata: c’era sempre qualcuno a spiarmi fuori dalla porta casa e ci furono degli articoli sui giornali in cui si parlava male di me infangando mia moralità. Tuttavia la clinica mi permise di vivere e lavorare fino a quando, con le bombe all’Hotel Acropole e al Sudan Club del 1988, capii che la situazione stava precipitando – l’anno seguente infatti ci fu il colpo di Stato – e decisi di andarmene. Feci bene: con l’arrivo di Hamas e il colpo di Stato di al-Bashir con la sua ideologia anche al di là della politica, le donne furono violentemente spinte indietro, perdendo tutti i diritti conquistati nel tempo. Ho vissuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito per 20 anni, dove professionalmente mi sono potuta realizzare molto di più di quanto non avrei potuto in patria. Sono tornata nel 2008, questo è il mio Paese e qui voglio vivere».

E spiega perché: «Ho bisogno del sole per star bene fisicamente. Sembra paradossale con tutte le punizioni corporali che ci sono, per colpa del governo e del sistema legale, ma socialmente il Sudan è anche gentile e tollerante, del genere ‘vivi e lascia vivere’. Naturalmente c’è un prezzo da pagare: bisogna sempre eccellere e fare attenzione – ma in fondo le donne devono pagare sempre e ovunque. Inoltre ormai l’età mi aiuta: ho 64 anni, l’epoca dei processi è finita e per di più non ci sono tante donne come me da queste parti. Infine, è bello stare dove c’è tanto da fare. Io ci sto per dire: ‘Se ce l’ho fatta io ce la potete fare anche voi!’ Sì, rimango qui fino a quando non mi puntano una pistola alla testa».

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