Guardarsi allo specchio a lungo è un’esperienza perturbante: a un certo punto appare l’altro che è in noi e ci troviamo di fronte a un estraneo. Ma Gaia, ventinove anni, protagonista di Pudore, secondo romanzo di Maddalena Fingerle (Mondadori, pp. 154, euro 18), questo altro – o un sé più vero – lo cerca nell’amata che l’ha abbandonata: cerca cioè di trasformarsi in lei, travestendosi da lei e riarredando casa propria come quella dell’ex, e quando a un certo punto si guarda nello specchio di un camerino di boutique, seminuda e in lacrime, avviene uno sdoppiamento: l’una abbraccia l’altra, la bacia, la tocca, la conduce al piacere. Cos’è successo? È una guarigione o un collasso identitario?
Di identità Fingerle si era occupata fin dall’esordio con Lingua madre, premio Calvino 2020, dove il protagonista Paolo Prescher è ossessionato dalle «parole sporche» (di cui il suo nome è un anagramma) che abbondano nella propria famiglia e in generale a Bolzano, la sua città natale: così un rapporto parapsicotico con il linguaggio diviene lì il mezzo di svelamento di una condizione filiale irrisolta rispetto a una maternità molteplice: madre biologica, terra natia e lingua matrigna. Di travestimento l’autrice ha scritto invece nella sua dissertazione su Giambattista Marino, da cui poi ha tratto un volumetto divulgativo uscito pochi mesi fa per Italo Svevo, L’Adone non è noioso, che seguiva a sua volta un racconto su scrittura e gravidanza uscito per Tetra.

DI QUEI TESTI permangono qui le due polarità del ludico e dell’abissale attraverso cui Fingerle sa condurre i suoi lettori, ma con in più un’umbratile fragilità: «io non sono gaia e non voglio esserlo», dice di sé la narratrice, e più avanti affonda il colpo: «Se io perdo sto solo meglio. Ho sempre scommesso contro di me».
Eppure Gaia è sempre un po’ sopra le righe e, oltre alla pervicacia, ha il pregio di esprimere chiaramente, nelle sue visioni e nei sogni, la violenza che attorno a lei resta compressa nei codici borghesi. Figlia di un’agiata famiglia italiana residente a Monaco di Baviera, ha scontato per anni una madre narcisista e infidamente svalutante, un fratello capace dei peggiori dispetti e un padre dall’autorevolezza invasiva, finché non è andata vivere da sola in un appartamento malmesso del quartiere più fighetto della città. Poiché però si è accontentata di un impiego in banca e non ha un fidanzato, per i suoi è una «vecchia zitella fallita».
La sua nostalgia di Veronica, la ragazza del Salento dalla quale è stata lasciata e di cui nel romanzo – a dispetto della descrizione che ne fa il risvolto di copertina – appaiono solo proiezioni frammentarie attraverso il ricordo dell’io narrante, è anche desiderio di affrancamento dalla propria classe sociale, impulso verso un basso idealizzato, voglia borghesissima di essere anche lei una «ragazza del popolo» e di saper montare un letto. Ed è, forse soprattutto, rimpianto di un periodo in cui la sua serenità si nutriva di complimenti, del sentirsi dire «che sono brava».

DI TANTO IN TANTO GAIA racconta tutto questo a uno psicologo al quale, come a chiunque, ha affibbiato un nome arbitrario che combaci meglio, ai suoi occhi, con l’aspetto della persona. Si tratta di sedute on line, ed è il solo luogo dove Gaia è se stessa senza mascheramenti, con esiti ora esilaranti ora catartici. Per il resto il romanzo è il percorso grottesco con cui Gaia cerca di trasformarsi in Veronica – sempre si chiami così –, dalla parrucca al trucco, alla coppetta mestruale al posto del tampone, fino alla mobilia, alle pareti e a prendere il suo posto per una sera al bar dove lavorava, salvo poi dover incassare un abuso da parte del gestore che di Veronica è invaghito.
Nondimeno, nel suo genere un po’ fluido, Gaia si confessa l’attrazione per le spalle larghe del ragazzo che viene a prendersi i mobili, le stesse che poi cerca nel proprio terapeuta, che però presume gay. Quando poi con quest’ultimo le cose parranno prendere la piega della guarigione, saranno le origini di classe a riagguantarla. Sicché diventare adulti, e se stessi, si rivela molto di più di un travasarsi in vesti altrui: è un autodafé, che comporta per di più l’impudicizia di imitare un accento.