Ha vinto alla Mostra il primo premio per la sezione Orizzonti Corti l’intimo e coraggioso La Voz Perdida del paraguayo Marcelo Martinessi, che racconta le devastazioni emotive legate a quello ormai noto come massacro di Curuguaty, in cui, era il 2012, persero la vita 11 contadini (campesinos) e sei agenti di polizia.
Immagine muta e parole affacciate sul nulla, gettate nel nero. È questo paradosso cinematografico ad animare la struttura di questo breve lavoro dal montaggio costruttivista, che crea cortocircuitazioni del senso e del sentimento a partire dalla messa in sequenza di materiali eterogenei. Le immagini di una anziana campesina, reagiscono alchemicamente con un’intervista audio registrata per un documentario sul massacro di Curuguaty ancora in fase di sviluppo, materiali di diversa natura, raccolti in tempi diversi.
Qual è la funzione attiva del cinema in un paese come il Paraguay, che ancora soffre di disugualianze sociali profonde?
Il cinema nel mio paese è un fenomeno recente, la disuguaglianza no. Trentacinque anni di dittatura militare hanno lasciato conseguenze sia politiche che sociali difficili da superare. Se si eccettua El Pueblo di Carlos Saguier, del’69, e una manciata di altre opere siamo stati praticamente assenti da tutta la lunga stagione del cinema politico o di denuncia, vitale nella definizione del futuro della narrazione audiovisuale nel nostro continente. Il Paraguay vuole guardarsi nello specchio dello schermo cinematografico ma al tempo stesso comprende che questo sguardo dovrà necessariamente essere riflessivo, critico e coerente con la sua storia.

Spieghiamo ai lettori italiani qual è la voce perduta del titolo

Curuguaty è stato cruciale per la storia recente del mio paese, fu il pretesto per un colpo di stato che modificò, in peggio, l’andamento del paese. La copertura mediatica del massacro è stata fortemente limitata dal potere giuridiziario e, presumibilmente, da quello politico. Addirittura nella difesa dei campesinos quasi non si parlò della legittimità dell’occupazione né dei risultati delle perizie balistiche o dell’agenda politica che seguì il massacro, aspetti, invece, determinanti.
«La Voce Perduta» mira ad altro, riguarda l’esperienza umana ed emotiva. E questo è veramente un luogo cinematografico. D’altronde anche in Europa, la copertura mediatica di fatti gravi, ad esempio la questione dei rifugiati, è omissiva e ben di rado arriva a trattare, nelle sue reali dimensioni, la realtà esistenziale di una persona cui non è concesso trovare un luogo in cui poter esistere. È il cinema a farsi carico di questa funzione, il che, oggi, è un contributo indispensabile.
Sei riuscito a guadagnarti la fiducia della comunità dei campesinos sin tierra …
In realtà l’intervista principale del corto, con quella intimità di voce così commovente, non sarebbe stata possibile senza la collaborazione di Perla Alvarez, campesina per scelta e grande esperta della loro lingua, il guaraní, che grazie a lei per noi è diventata un ponte verso la comunità, ma che può diventare una barriera culturale insormontabile. Perla frequentava da parecchio la gente di Curuguaty, grazie a lei abbiamo vissuto tre giorni con la famiglia della protagonista, mentre preparavano l’amido o alimentavano gli animali, abbiamo fatto il bagno insieme a loro nel torrente dietro casa e abbiamo dormito lì, sotto gli alberi. É stato un tipo di avvicinamento graduale che è fondamentale in questo tipo di lavori. L’intervista è stata registrata dopo questa esperienza, tra le tre e mezza e le cinque di una notte, bevendo mate vicino al fuoco in una atmosfera talmente speciale, che non abbiamo avuto il cuore di interrmperla nemmeno per accendere la telecamera. Un’esperienza unica, specialmente se consideri che è difficile ottenere testimonianze autentiche, non influenzate,per il fatto che la gente di Curuguaty, ormai abituata alla sovraesposizione mediatica, tende a difendersi con discorsetti già belli e pronti, sia che si tratti di giustificare la propria militanza, sia che si tratti di una genuina necessità difensiva o di difendere l’adesione a una posizione intermedia e moderata.

Volevi guidare lo spettatore verso un certo tipo di giudizio etico e politico?

No, l’intento principale era quello di presentare i fatti per come sono avvenuti. Per quanto io ritenga che quanto avvenuto in Paraguay nel 2012 sia effettivamente stato un colpo di stato ho scelto di non usare mai la parola golpe, preferendogli sempre l’espressione giudizio politico express, una definizione tecnica adottata dai nostri media. Poi succede, come credo sia successo a te, che la mancanza di legittimità di tutto questo processo sia talmente evidente che un certo grado di giudizio etico si formi in automatico nella testa dello spettatore, senza la necessità di aiuti da parte mia…è la sua stessa intelligenza a ripetere «golpe, golpe, golpe»
Immagini senza dialoghi, e racconto vocale senza immagini…
Molte delle decisioni estetiche e narrative sono state prese in funzione del materiale che avevo a disposizione per costruire il corto, il cui linguaggio specifico, aldilà delle limitazioni pratiche, è emerso poco alla volta, in corso d’opera. Inizialmente avevo solo una serie di immagini filmate tre anni prima per un progetto non terminato, che aveva immagini forti, sceneggiatura e dialoghi non soddisfacenti. Inoltre avevo otto interviste a donne di Curuguaty, registrate per un documentario ancora in fase di sviluppo. Mi è parso che una di queste interviste, la più interessante, fosse particolarmente forte dal punto di vista visivo e, al tempo stesso, che contenesse un rimando, per quanto vago, a quelle immagini preesistenti. Il montaggio è iniziato quasi per gioco, per vedere se era possibile un dialogo tra questi due distinti progetti. È da questa collisione che, dopo vari mesi di lavoro, è nato La Voz Perdida. Durante i corsi universitari e i workshops che ho avuto modo di frequentare ho notato una forte tendenza all’omologazione delle forme del racconto, alla reiterazione delle formule di dimostrato successo, perfino ricette preconfezionate per il cinema d’autore. Mi sembra fondamentale presevare quei rari luoghi in cui rimane spazio per sperimentare, in cui muoversi senza timori tra prove de errori, perché solo da qui può emergere qualcosa di nuovo, inaspettato, che ancora ci ricordi che il cinema è vivo. E questa sensazione è bellissima.