La voce di Tabucchi è divenuta personaggio
Scrittori italiani Lo statuto debole della letteratura; la visione romantica; i giudizi pungenti... Due lunghe interviste anni novanta: «Zig Zag», Feltrinelli
L’abitudine a svicolare da domande sulla composizione della pagina letteraria troppo astratte o toccate da fumus «strutturalista», portava Antonio Tabucchi a citare spesso il poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade e i suoi versi che descrivono la musica prediletta, quella «a buon mercato», che si può fare con un’armonica o «un organetto». Discorrendo con il suo traduttore greco, l’amico Anteos Chrysostomidis, Tabucchi precisava: «Credo che la pagina letteraria abbia bisogno di macchie», e si riferiva agli autori come a «poveri scrittori», aggettivo che, ripetuto in diverse occasioni, si deforma in un suggestivo lapsus shakespeariano: l’autore di Vecchiano accosta la figura dello scrittore a quella dell’attore, e quel «povero» sembra allora rimandare al Poor player del celebre monologo del Macbeth, «che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena, e del quale poi non si ode più nulla».
Queste e altre prefigurazioni della posizione «debole» dello scrittore, che sembrano alludere a un organico elogio del «minore» in letteratura – dalla parte di Deleuze e Guattari, ai quali pure Tabucchi amava riferirsi – innervano le risposte fornite durante le conversazioni appena raccolte da Feltrinelli sotto il titolo Zig Zag («Varia», pp. 352, € 22,00).
Il volume riunisce due lunghe interviste condotte da eminenti «tabucchiani», mai pubblicate in Italia finora: la prima, Sabati d’inverno, con Carlos Gumpert, traduttore spagnolo di Tabucchi (nella traduzione di Clelia Bettini), risalente all’inverno 1991-’92; la seconda con il suo omologo greco, il già citato Chrysostomidis, intitolata, appunto, Una camicia piena di macchie (tradotta da Maurizio De Rosa), realizzata nel 1998-’99. Oltre alle brevi note dei due autori, il libro è completato da una ricca introduzione di Anna Dolfi.
Un libro «incongruo»
Le conversazioni sono state condotte in italiano, per poi essere riversate dai loro autori rispettivamente in spagnolo e in greco, e compiono adesso il viaggio di ritorno con nuovi traduttori. Zig Zag è un libro di interviste incongruo (un aggettivo caro a Tabucchi), che si dipana per oltre trecento, dense pagine, sortendo l’effetto di trasformare la voce dell’autore in quella di un personaggio, sorta di «evocazione» di uno scrittore assente: se la conversazione con Gumpert prende, a tratti, toni aforistici che non assecondano una musica colloquiale, quella con Chrysostomidis si presenta più scopertamente biografica, ma anche più rapida ed ellittica, e in essa lo scrittore sembra assumere un atteggiamento più intimo e confidenziale.
Entrambe ci restituiscono un Tabucchi pungente, allegramente provocatorio di fronte alla sensibilità contemporanea (e che non manca di dichiararsi fin da subito «un essere contraddittorio»). La prima e più importante tra le affermazioni urticanti fatte a Gumpert: «Credo profondamente nell’ispirazione». Emerge, veemente, lo spirito romantico che Tabucchi soleva assegnare a se stesso: «Ho e voglio avere una visione romantica della scrittura (…) Ci sono persone che sono visitate da voci, voci interne, e forse io sono una di quelle persone», e anche per questo spera in un lettore «disponibile all’imprevedibilità dell’esistenza». Si dichiara avversario della pagina ben tornita e amico dei periodi non levigati, ma poi ama dirsi flaubertiano, in riferimento soprattutto alle definitive «scoperte sull’uomo» formalizzate in Madame Bovary. E poi, sulle preferenze letterarie, trova il Joyce dell’Ulisse noioso, così come l’inizio dei Promessi sposi, ciò che gli dà l’abbrivio per allargare il campo, dagli incipit paesaggistici e descrittivi, alla contemplazione tout court: «La natura in sé mi annoia». Di Baudelaire apprezza la prosa dello Spleen assai più che la poesia; sposa l’opinione corrente soltanto quando mostra le ormai proverbiali riserve sul «secondo» Calvino (condite da allusioni ai critici che «suggerivano» romanzi agli scrittori).
Sullo statuto epistemologico della letteratura, incalzato con diverse argomentazioni da entrambi i suoi traduttori-conversatori, Tabucchi esibisce un elegante scetticismo. A Gumpert dà la risposta che giustifica il titolo del libro: «La letteratura, forse, non è altro che questo, un tentativo di arrivare in fondo a un percorso lungo il quale finiamo col perderci. Io, per esempio, sbaglio spesso strada, proprio perché le uscite sembrano molte ma forse non ne esiste nessuna, e non si sa mai quale direzione prendere. Qualunque scelta significa imboccare un unico sentiero, e per questa costrizione sentiamo la tentazione di avanzare a zig zag, saltando da un sentiero all’altro, azione che segue, o forse disegna e crea, il labirinto. E il labirinto cela al proprio interno sia il desiderio di soluzione di un enigma, sia il rischio di restare intrappolati come in una ragnatela». La letteratura, dirà più avanti, non cerca di spiegare il mondo: è una forma di conoscenza, ma debole, in cui conta cercare più che trovare. Proprio questa attitudine la rende decisiva: «Se il mondo prestasse un po’ più di attenzione alla letteratura, ne riceverebbe sicuramente avvertimenti, consigli e indicazioni molto utili». Poi, raccogliendo alcune meditazioni su La testa perduta di Damasceno Monteiro, torna a provocare: «In ogni giuria ci dovrebbe essere uno scrittore».
Entrambe le conversazioni seguono un palinsesto cronologico, imposto dalla bibliografia dell’autore, con la vistosa differenza dovuta al periodo in cui si svolgono i colloqui: Gumpert e Tabucchi dialogano fino al 1992, poco prima che lo scrittore riceva la «visita» più celebre, quella del bolso giornalista portoghese protagonista di Sostiene Pereira, compreso invece nella conversazione con Chrysostomidis, che da questo punto di vista risulta complementare alla prima. Passando in rassegna i propri lavori, Tabucchi rileva di aver trovato il proprio stile a partire dai racconti di Il gioco del rovescio, dove per la prima volta è messa a punto l’inclinazione a inseguire la fuggevole petite musique che, se raccolta entro un brevissimo lasso di tempo, produce la forma-racconto, genere nel quale Tabucchi dice di sperimentare un certo tipo di fantastico: mutuando da Cvetan Todorov la definizione, afferma di prediligere «il fantastico applicato» piuttosto che affidarsi al «fantastico puro»; è titubante su una possibile definizione di sé come autore postmoderno: nega decisamente l’istanza avanzata da Gumpert, ma poi stempera, perché forse, dice, anche la saudade porta con sé la radice dell’inquietudine postmoderna.
La vecchiaia mi interessa
Quello della «voce» è un tema ricorrente e centrale nell’opera di Tabucchi – messo in risalto dalle diverse pubblicazioni che gli sono state dedicate nelle ultime settimane, in occasione del decennale dalla morte avvenuta a Lisbona il 25 marzo 2012 –, e queste conversazioni non fanno eccezione. In esse lo scrittore presenta a più riprese i suoi personaggi con la ricorrente sineddoche delle «voci», e il libro, grazie alla sensibilità degli intervistatori e alla inconsueta lunghezza dei dialoghi, non può non suggerire esso stesso una ennesima rifrazione, stavolta meta-testuale, del problema. Zig Zag crea l’illusione di ascoltare la sua voce, e anche se è «impossibile sapere da dove», come direbbe lui, è una voce che arriva dal presente e al presente si rivolge – che si parli di letteratura, di impegno civile, o delle bizzarre direttive della Comunità europea contro gli ulivi cretesi – e quell’autore divenuto ormai personaggio, o «voce», sembra quasi di vederlo, adesso, ottantenne («La vecchiaia mi interessa molto», dice a Chrysostomidis, lui che vecchio davvero non è mai diventato), presentarsi sulle gambe di una delle «altre vite» alle quali fa riferimento anche nelle interviste. La petite musique della sua voce non può essere confusa con altre.
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