Visioni

La voce delle immagini tra rimossi storici e sogni di liberazione

La voce delle immagini tra rimossi storici e sogni di liberazioneUna scena da «Les mots qu’elles eurent un jour» di Raphaël Pillosio

Archivio aperto La XVII edizione del festival bolognese dedicato al patrimonio cinematografico in piccolo formato. I gesti nascosti nei film hollywoodiani secondo Dana Najlis, le donne algerine dopo il carcere ritrovate da Raphaël Pillosio

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

Giunto ormai alla sua XVII edizione, il festival Archivio Aperto (fino al 27 ottobre a Bologna), è dedicato alla riscoperta del patrimonio cinematografico in piccolo formato – privato, amatoriale, sperimentale, d’artista – e al suo riuso contemporaneo. Organizzato da Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, dal 2023 la direzione artistica è affidata a Sergio Fant e Giulia Simi. Titolo dell’edizione di quest’anno è The Art of Memory, proprio a indicare come, raffinata e complessa, la memoria sia un’arte che si esercita, secondo una tradizione millenaria, con vere e proprie tecniche.

DIVISO fra rassegne, omaggi, incontri e workshop, il festival intreccia nella sua sezione competitiva documentari, video-saggi e film d’archivio che, mai come quest’anno, vogliono interrogare, tramite le immagini in movimento, le coordinate sociali, politiche e produttive della memoria. È il caso di The Hidden Gesture. War and Melodrama in Hollywood’s 30s and 40s dell’argentina Dana Najlis, un folgorante video-essay (o critofilm, come avrebbe detto Adriano Aprà) che monta spezzoni di film di guerra e mélo hollywoodiani della Golden Age: da Frank Borzage ad Howard Hawks, passando per Lubitsch e Fritz Lang. La scelta della regista però è quella di recuperare per l’appunto il gesto nascosto, l’atto mancante, il dettaglio polisemico all’interno di una cinematografia, all’epoca, focalizzata quasi unicamente sul volto della star. Najlis cancella così le strutture portanti del divismo di allora che, come sosteneva Edgar Morin, era una vera e propria mitologia moderna, nonché un prodotto autentico del capitalismo borghese.

Quasi un’amputazione filmica, The Hidden Gesture – che fin dal titolo richiama il capolavoro di Josef von Sternberg The Shanghai Gesture – restituisce dunque ai primi piani delle mani e dei piedi il loro valore portante, anche allo scopo di individuare come la guerra si fosse insinuata perfino nei gesti romantici rappresentati nei melodrammi di allora. Escludendo dunque il volto – elemento identitario per eccellenza – dal campo visivo, il film sembra farsi preludio di un’altra mancanza, quella della voce, al centro di Les mots qu’elles eurent un jour, documentario-inchiesta, ma anche film-saggio sul dispositivo cinema, diretto da Raphaël Pillosio.

«The Hidden Gesture» di Dana Najlis

Nel 1962, il cineasta Yann Le Masson filmò alcune attiviste algerine appena rilasciate di prigione grazie all’intervento del Fronte Nazionale di Liberazione. Più di 50 anni dopo, Pillosio ritrova quelle immagini dimenticate da Le Masson, accorgendosi che manca completamente il sonoro. Siamo a Parigi, presso la sede della Cimade, e Le Masson filma queste donne appassionate, sensuali ed estremamente «tattili», come se la vita carceraria e gli inferni condivisi (molte di loro furono torturate dall’esercito francese) avessero creato un legame quasi simbiotico. Grazie a una testimonianza video di Le Masson (registrata una decina d’anni fa da Pillosio prima della morte del cineasta) conosciamo le domande a cui vengono sottoposte, ma le loro voci nel girato sono inaccessibili.

NEL TENTATIVO di ricostruire quella testimonianza mutilata dunque, Pillosio decide di percorrere una duplice strada, dapprima mettendosi alla ricerca di chi fra loro è ancora in vita per provare a riattivare il processo della memoria di quella giornata, interrogando le protagoniste circa le loro idee dell’epoca, le loro utopie e istanze politiche. Alcune sono morte, altre hanno scelto una vita borghese e preferiscono non parlare, altre ancora continuano a lottare, come l’avvocato e attivista Zohra Drif. In molte nemmeno ricordano di essere state filmate, ma chi ricorda bene quel giorno non ha dimenticato che, sicuramente, in quel filmato si parlava (con grandi speranze) del futuro di un’Algeria libera e finalmente paritaria.

IL REGISTA però non demorde e decide di farsi aiutare da due esperti di labiale (uno dei due è sordo e parla con il linguaggio dei segni) pur consapevole della sua polisemia: anche una vocale diversa può cambiare il senso della frase. «La parola scritta àncora il significato dell’immagine» diceva Barthes e dunque qualsiasi scelta di sottotitolaggio impone arbitrariamente un significato mentre l’immagine senza sonoro è suscettibile di tantissime letture e lascia una grande libertà interpretativa. Come comportarsi dunque di fronte a un filmato senza sonoro che chiede di essere riempito? Ponendo questa «sfida» allo spettatore, Les mots qu’elles eurent un jour trova un espediente narrativo che gira attorno a questo oggetto del desiderio senza mai riuscire a colmarlo definitivamente.

Funzionale alla narrazione, questo girare attorno al vuoto diventa un’indagine quasi forense sulla parola e dunque sull’identità. Come davanti a una moviola, il regista fa scorrere avanti e indietro i primi piani di queste donne ma l’enigma di quelle parole, di quelle vite e di quelle cicatrici ancora persiste mentre le immagini che scorrono ostinatamente silenziose gridano ancora oggi la necessità di parlare di temi come la condizione della donna, il lavoro, la libertà e la necessità di una rivoluzione.

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