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La voce del quartiere della Goutte-d’Or

La voce del quartiere della Goutte-d’OrPaul Cézanne, La pendule noire, 1869-1871: il quadro apparteneva a Émile Zola

Classici francesi Nella sua nuova traduzione dell’«Assommoir», Luca Salvatore accentua le «cacofonie infernali» del testo dando risalto alla resa stilistica, non solo dei termini gergali ma della ricchezza metaforica e icastica dell’allure argotique: da Feltrinelli

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 4 febbraio 2018

In un saggio del 1903 su Émile Zola, Henry James si produce in un’affascinante lettura che intreccia la sua raffinata penetrazione critica a una sottile, sotterranea ambivalenza. L’omaggio alla monumentalità del ciclo narrativo dei Rougon-Macquart convive con il disagio per «l’enorme bocca divoratrice» dell’immane progetto e per l’ingombrante presenza della sua finalità dimostrativa, mentre la stessa eroica determinazione di Zola nella presa diretta sul soggetto, nella ricerca documentaria e testimoniale, diviene, arbitrariamente, «la più straordinaria imitazione dell’osservazione che noi possediamo». E tuttavia, per James, fanno eccezione La Défaite, Germinal e, soprattutto, L’Assommoir: l’opera più contraddittoria e paradossale dei Rougon-Macquart, in cui si sancisce allo stesso tempo il trionfo del «metodo» e la sua insistita, irresistibile contestazione, dove lo «spreco» e il «dispendio» della visione si prendono vendetta del progetto, nell’abbandono alla libera complessità della scrittura da parte di uno Zola finalmente «costretto a rinunciare alla sua magnifica macchina piena di caselle e di documenti».

Nei panni dell’etnologo
Se si accolgono le seducenti istruzioni di lettura jamesiane (profetiche, d’altronde, nell’anticipare le più recenti rivisitazioni critiche dell’opera di Zola), ci si inoltra in un’esplorazione dell’Assommoir «senza garanzie» – liberata dai vincoli ma anche dai pur confortanti points de repère della sua fondazione teorica nei saggi del Roman expérimental e nei manifesti letterari delle prefazioni –, un’indagine a tutto campo, orientata dalla sola ipercomplessità di un’«opera a parte» nella produzione dello scrittore francese, eminentemente conflittuale e irta di ostacoli interpretativi. Le peripezie del viaggio critico sollecitato da James cominciano, d’altra parte, già con la genesi del testo. L’Assommoir è pensato come un «romanzo operaio» e, insieme e contraddittoriamente, come la «vita di una donna», proiettando sull’affresco dei tenebrosi bassifondi parigini un’epopea negativa del proletariato urbano e la storia dell’ascesa e della caduta di un sogno di riscatto, lungo gli anni di tumultuosa, tragica esistenza della protagonista Gervaise. Settimo capitolo della rigorosissima ingegneria ciclica dei Rougon-Macquart, il libro è d’altra parte perno del cosiddetto «romanzo di Gervaise», sorta di «ciclo nel ciclo» innestato nella più vasta serie romanzesca, che ne complica le coerenze geometriche e le correlazioni compositive.

Allo stesso tempo, è concepito in uno slancio di adesione mimetica al mondo rappresentato ma nella distanza dello sguardo straniante e straniero di un imprevedibile «etnologo», in un inquietante connubio di prossimità e alterità. Su questo sfondo problematico e contrastante, a nulla valgono le maniacali, metodiche «fasi preliminari» previste abitualmente da Zola per la stesura di un testo. Pur preparato a lungo, attraverso una laboriosa campagna di raccolta di materiali documentari e osservazioni sul campo – «L’Assommoir è stato la mia tortura», confessa Zola a Edmondo De Amicis – programmato poi in una pletora di «note», «abbozzi» preliminari, disegni e mappe dei luoghi, Lo scannatoio si dispiega tuttavia in una sontuosa, sensuale violenza rappresentativa che sfugge alle maglie troppo strette del «plan».

Già in questo precario equilibrio o, in termini jamesiani, in questa vacillante «sproporzione» progettuale, si annuncia la dimensione esemplare e allo stesso tempo deviante dell’Assommoir, proposto ora in una nuova, accuratissima traduzione italiana di Luca Salvatore (Feltrinelli, pp. 620, euro 12,00). Nella prospettiva lucidamente deformante cui ci invita Henry James, Lo Scannatoio appare attraversato da un movimento di torsioni e tensioni interne non ricomponibili, da un gioco di simmetrie, rinvii e opposizioni proliferanti, quasi alla deriva nel denso corpo di una scrittura che realizza e insieme derealizza il programma di Zola, lo struttura contraddicendolo o dissolvendolo in un’efferata disarticolazione di ogni convenzionale armonia delle forme narrative, fino a trasformare il romanzo – scrive Jacques Dubois – nel «resto» e nello «scarto» della sua intenzione consapevole.

Nulla sembra sottrarsi a questa rivolta dell’opera contro il fondamento che le fa da cornice: dalla rappresentazione visionaria degli spazi, abitati da cose e presenze minacciose o enigmatiche, alla sinfonia in nero dello strazio e del frastuono delle moltitudini urbane, «che arde – scrive François Cavanna, nella prefazione all’edizione Fasquelle dell’Assommoir – e urla di tutte le fiamme e di tutte le cacofonie dell’inferno».

La traduzione di Luca Salvatore accentua queste «cacofonie infernali» con il risalto conferito ai tratti tipici del parlato, alla resa stilistica non solo dei termini gergali disseminati nel testo ma della ricchezza metaforica e icastica dell’allure argotique in tutte le sue violazioni lessicografiche, morfologiche e sintattiche della lingua ufficiale – senza mai indulgere alla tentazione di attenuare la carica eversiva che costituisce la specifica «letterarietà» del linguaggio riflesso e rappresentato nell’Assommoir.

«È la forma che ha scandalizzato. Se la sono presa con le parole», scrive Zola nella sua prefazione, commentando le indignate recensioni apparse sulla stampa durante la pubblicazione in feuilletons del romanzo. Non è certo casuale che si sia rivelata superbamente contraddittoria anche la prima ricezione dello Scannatoio, accolto da un trionfale successo di vendite ma stroncato dalla critica accademica, salutato dagli scrittori del tempo in una sfavillante serie di letture appassionate eppur divergenti.

Tra lo sdegno di Hugo, il prudente riserbo di Flaubert (a cui Zola dedica una copia dell’Assommoir, «in odio al gusto»), l’ammirazione di Bourget e Maupassant, l’entusiasmo di Huysmans per la configurazione dinamica e magmatica della metropoli, nell’intensità del suo caotico formicolare di vite, si segnala la lungimirante analisi di Mallarmé, centrata precisamente sull’audacia delle sperimentazioni linguistiche dell’Assommoir, «in cui la verità diventa la forma popolare della bellezza per l’ammirevole tentativo linguistico con il quale le espressioni spesso inadeguate create da poveri diavoli assumono il valore delle più belle formule letterarie».

L’omaggio di Céline
Il lirismo turgido e simbolico proprio di tanta parte delle opere di Zola, in cui momenti alti di letteratura di scuola flaubertiana si mescolano a elementi giornalistici e a inserzioni attinte dal linguaggio gergale, con Lo scannatoio si estremizza in un impasto linguistico dissonante, nel deliberato corto circuito tra espressione artistica, argot e linguaggi della strada, «come se tutto il romanzo», ricorda Henri Mitterand nell’edizione critica dell’Assommoir, «fosse parlato dalla voce collettiva del quartiere della Goutte-d’Or» – un’esplosiva pratica di scrittura che prefigura le future metamorfosi novecentesche nelle commistioni e nell’impressionismo stilistico di Céline. L’imperativo della forma si fa esigenza di voce parlata, necessità di libero accesso a un linguaggio marginale che sovverte canoni e statuti del romanzo, al limite dell’intraducibile. «Dopo, non si è fatto di meglio», osserva Céline nel suo «Omaggio a Zola» del 1933. E aggiunge, provocatoriamente: «Forse Zola aveva lavorato troppo bene per i suoi successori?»

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