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La vittoria degli sconfitti

La vittoria degli sconfittiIl ministro degli interni Angelino Alfano e il premier Enrico Letta

Senato Un voto di fiducia scontato lascia un ministro ammaccato e un governo precettato (dal Colle). Il Pd rientra nei ranghi, il Pdl ora teme un rimpasto

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 20 luglio 2013

Parla Luigi Zanda, presidente del gruppo che con il suo voto gli salva il dicastero, ma Angelino Alfano non è per niente soddisfatto. Digrigna i denti, rotea gli occhi, gesticola, sembra sul punto di saltare al collo del soccorritore. Bisogna capirlo. Per tutti i 10 minuti di intervento, Zanda sciorina uno via l’altro i motivi che dovrebbero rendere inevitabile il voto a favore della mozione di sfiducia. Schiaffeggiando logica e coerenza, conclude annunciando invece il voto contro la mozione, pur se condito però con “amichevole” invito acciocché Alfano lasci di sua sponte.

Ma il risultato è inglorioso e perdente per tutti. Per Zanda e per il suo partito, che ne escono ridicolizzati e gonfi di rancori interni. Per Alfano, che resta al suo posto ma non ci rimarrà a lungo. E’ un ministro bruciato: alla prima occasione, probabilmente il rimpasto in preparazione per l’autunno, dovrà sgombrare. Per Enrico Letta, che stringe vigorosamente la mano al suo vice,in segno di solidarietà, ma poi, nell’intervento, offre al Pd l’unico appiglio possibile: «Questo voto contro la sfiducia è anche una nuova fiducia». E’ probabile che si tratti di un passaggio suggerito se non richiesto apertamente: sia almeno chiaro che trattasi di voto di fiducia al governo, non ad Angelino Alfano.

Non finisce qui la lista degli sconfitti . Non ne escono certo bene i dissidenti del Pd, renziani o meno che siano. In massa si sono dati a precipitosa fuga, e anche i pochi che hanno tenuto duro non ce l’hanno fatta a votare apertamente a favore della sfiducia. Hanno preferito disertare il voto, non potendosi astenere perché al Senato l’astensione equivale a voto negativo. Unica eccezione Felice Casson, che vota “sì” seminando il panico nelle file Pd e persino nell’animo esulcerato del presidente del Senato. La reazione è tanto violenta che Casson deve fingere di essersi sbagliato e chiedere di poter mutare il suo voto in un più tollerabile non-voto. Commedia all’italiana. Non sorride però Esposito, già applauidito autore della requisitoria contro i “fighetti” renziani. Quelli che hanno osato non votare li vuole fuori dai piedi, altrimenti sarà lui, minaccia, a lasciare il gruppo e ad aprire l’ordalia nel partito.

Ma non va bene nemmeno ai vincitori. Quasi non si ricorda un Berlusconi tanto nero e contrariato come in questa sua prima apparizione sui banchi del Senato. E di cosa dovrebbe essere contento, del resto? Sa bene quanti e quanto forti nemici si siano fatti il suo vicepremier, e l’intero Pdl, nelle forze dell’ordine e nei servizi segreti. Sa che Angelino, come ministro, è un morto che cammina. Sa che il governo esce della prova più debole che mai, e che nel suo partito le lacerazioni sono ormai così profonde che lui stesso nemmeno applaude l’intervento di Schifani, col quale il barometro segna gelo, né si complimenta come di prammatica.
Lo stesso Schifani, peraltro, aveva fatto poco per strappare applausi a chicchessia. Più che nella difesa di Alfano si era prodotto in quella del regime del Kazakistan: «Ma chi l’ha detto che si tratta di un dittatore? E come le spiegate allora tutte le onoreficenze di cui l’hanno coperto tanti stati democratici? Poi basta parlare di dissidenti: qui si tratta di un signore ricercato da diverse polizie per reati comuni». Legittimo il sospetto che il discorso se lo sia fatto scrivere direttamente dall’ambasciatore kazako.

La cronaca registra anche il siparietto del presidente del Senato Grasso, che interrompe il capogruppo grillino Morra intimandogli di non citare il nome sacro di Giorgio Napolitano. «Non sono ammessi riferimenti al capo dello Stato. Non lo si può citare». Nella Costituzione rivista e corretta da Grasso, il presidente o lo si cita per applaudirlo oppure è si tace. Un paese allegro e soprattutto libero quello dove le prime cariche dello Stato intenderebbero far vivere i loro concittadini.

Eppure questa volta neppure lui, re Giorgio, riesce a rimanere come al solito indenne. Per la prima volta persino nelle file del Pd, con la dovuta discrezione, quasi con la paura di osare troppo, fioccano appunti, distinguo, persino qualche critica. Questa partita, come tutte le ultime, l’ha giocata lui ed è andata a finire esattamente come voleva. Ma anche in questa partita, come in tutte le ultime, il saldo è opposto a quello perseguito del regista del Quirinale. Perché alla fine dei conti, il governo ne viene fuori non più forte ma molto più debole.

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