Visioni

La vita sul lato piazza. E poi ci si trova al bar

La vita sul lato piazza.  E poi ci si trova al bar

Le finestre degli altri Abitare in uno slargo permette di immaginare infiniti itinerari possibili e, al tempo stesso, schiude naturali punti di incontro

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 agosto 2016

Abitare su una piazza è un po’ come vivere in un porto, in un aeroporto o in una stazione. Che sia a incroci o a raggiera, le vie che da lì partono conducono a vari altrove sia fisicamente che con l’immaginazione.È un po’ come essere di fronte a un tabellone delle partenze dei treni e, mentre sollevi lo sguardo per controllare il binario del tuo convoglio, poco più sotto o sopra vedi destinazioni diverse da quella del tuo biglietto e ti viene voglia di cambiare meta, così, da un momento all’altro. Il desiderio di un’improvvisazione del genere mi prende nei luoghi più disparati e senza preavviso, scatenando il desiderio o di partire verso posti che non ho mai visto, o di tornare in quelli che rimandano a ricordi o a esperienze passate.

 

Per fare qualche esempio, a Trieste mi venne voglia di andare a Vienna o a Zagabria invece di tornare a Milano, a Milano mi è presa la nostalgia di Ginevra e avrei cambiato volentieri il biglietto per Roma, a Firenze avrei voluto rivedere Lucca invece che partire per Livorno. Per una serie di ragioni che hanno a che fare con il senso del dovere e il conto in banca, quasi mai si riesce a fare un colpo di vita così, ma già il pensarlo fa bene.

Fantasie di un altrove

Una piazza offre più itinerari possibili di una via lineare, e forse è per questo che l’istinto mi ha sempre portato ad abitare in case che si aprono su uno slargo. Quello dove sto ora è una rotatoria di piccole dimensioni, con in mezzo un giardinetto, e da cui partono sette vie: una porta a un ponte su una ferrovia, una alla ferrovia e al centro città, una va verso il cuore del quartiere, un’altra conduce verso Venezia, la quinta va verso Como e la Svizzera, la sesta e la settima sono orientate in direzione Torino. Certo, l’immaginario non si scatena come quando mi trovai a Delhi e mi divertii a pensare: «Adesso vado a Pechino o a Kuala Lumpur?», però quello che conta è il richiamo del viaggio, l’idea di poter partire.

 

Oltre a scatenare desideri di movimento, le piazze, se ben disegnate, svolgono anche l’operazione opposta, ovvero accolgono, raccolgono e sono un naturale punto d’incontro. Chiamata come uno dei più grandi scultori della storia, senza tuttavia esserne all’altezza dal punto di vista architettonico, la piazza che vedo dalle mie finestre fino a pochi anni fa non ospitava al centro un cerchio con l’acero e le rose di adesso, ma un triangolo asfaltato che aveva come unica funzione quello di governare le precedenze. La cosa non sempre riusciva, tant’è che più di una volta si sono incocciate delle auto, con conseguenti liti su chi aveva ragione. Una volta toccò anche alla mia Solara Talbot di quarta mano, che io chiamavo l’ammiraglia del pensionato. Era parcheggiata lì sotto e un ubriaco un sabato all’alba la spiaccicò contro un palo, ma siccome era appunto un’ammiraglia, sebbene datata, se la cavò con qualche riparazione.

 

Numerosi sono anche i dissapori e gli intoppi provocati dagli autoveicoli. Almeno una volta a settimana, il titolare del negozio di stampanti che ho di fronte litiga con qualche automobilista che parcheggia al posto del suo carico/scarico. Il dialogo sembra scritto da uno sceneggiatore stanco tanto è ripetitivo: «Lei non può stare qui». «Ma fatti gli affari tuoi». «Ma fottiti» sono le frasi che si scambiano tanto per gradire con le belle maniere. Poi ci sono i genitori frettolosi che parcheggiano sulle rotaie del tram per portare i figli nella piscinetta che un tempo ospitava un negozio di sedie a rotelle, le Mercedes in doppia fila «Tanto nella rotonda si passa lo stesso», i furgoncini dei muratori bergamaschi che occupano i posti migliori perché arrivano all’alba, i cinesi del ristorante che quando devono lavare la macchina tolgono gli archetti infissi nell’asfalto, fanno uscire una canna dall’ingresso del locale e, finita la toilette, rimettono gli archetti nei loro buchi.

 

Quando al posto delle rose c’era il triangolino di asfalto, il centro della piazza si trasformava ogni due o tre giorni un uno scambiatoio di mobilia. Chi voleva liberarsi del vecchio divano, della libreria datata, di un mobile tivù dell’era Nicoletta Orsomando, mica chiamava l’Amsa e il suo servizio prelievo gratuito, ma li portava al centro della piazzetta, sicuro che nel giro di qualche ore qualche bricoleur o abitante poco solvente lo avrebbe prelevato, lasciando lo spazio perfettamente sgombro e pulito. Poi il comune ha piantato le rose e addio al libero scambio.

 

Siccome sulla piazza ci sono un parrucchiere, due bar, un ristorante, un dentista, il negozio di stampanti, una piscina per bambini, una banca, degli uffici, un’edicola, e sopra a queste attività si elevano sei palazzi dai cinque ai sette piani, tutti abitati, il via vai è perenne e vario. Ciò che scandisce i suoni, i passaggi, il movimento e gli incontri sono gli orari della giornata.
Uno dei primi suoni arriva con le luci dell’alba ed è quello del tram. Vederlo arrivare dal ponte sulla ferrovia, con il suo fanalone acceso davanti, il cielo aperto dietro, mentre attorno qualche finestra si apre e il profumo di caffè esce dalla moka sul gas in cucina, è uno di quei momenti che mi fanno amare Milano.

Il parcheggio tra le rose

Sotto, l’edicola e il bar accanto sono già aperti ed è lì che si concentra l’animazione maggiore. Vuoi perché l’edicolante è simpatico e disponibile, vuoi perché il bar è grande, ha la tabaccheria, dei tavolini all’aperto e un barista che si ricorda che caffè prende la gente, a chi vive e lavora lì attorno viene spontaneo ritrovarsi in quello spicchio di piazza. Quando alle 6 le loro saracinesche si alzano, come d’incanto le persone compaiono e le vite si incrociano, laboriose, pensose, frettolose, svagate, assonnate.
Un uomo fa il giro mattutino col cane, una giovane donna cammina in fretta, un gruppo di operai entra al bar per il primo caffè della giornata, Biagio l’edicolante spacchetta ed espone i giornali, un portinaio spazza il marciapiede, un giovane parcheggia una moto. È uno spazio di tempo lungo un’ora, dalle sei alle sette, ed è il più magico perché contiene tutte le possibilità del giorno che inizia. Dopo è un crescendo di arrivi, partenze, transiti, clacson, attraversamenti, frenate. Le voci no, quelle arriveranno più tardi, con i bambini che a gruppetti vanno a scuola, quando c’è, con le madri che spingono trafelate un passeggino dicendo all’altro figlio .

 

Da lì in poi, è tutto un daffare di negozi che aprono, lì su piazza o limitrofi, e relativo via vai di pacchetti e commissioni fra il calzolaio e la lavanderia, la sartoria e l’estetista, il tabaccaio e l’ufficio, il negozio di abiti vintage e quello di massaggi cinesi, l’impiegata che si veste come Betty the Boop e la ragazza sportiva, la signora che arranca sui tacchi e la modella con l’aria smarrita, la coppia giapponese sempre in bianco e nero, il padre che compra sigarette per sé e brioche per il figlio, la commessa non più giovanissima ma ancora coperta di veli perché si fida molto del suo lato B, la vedova benestante che cerca qualcuno con cui chiacchierare, l’avvocato in pensione che quando il Milan perde litiga col primo che capita, e ultimamente succede sempre più spesso, i fotografi di un’agenzia lì accanto che si riuniscono al bar, l’uomo solo e senza orari che non esce mai senza il cane, l’altro che assomiglia al suo levriero, le due biondone napoletane vestite di bianco e gingilli che vanno a tentare la fortuna con i gratta e vinci, gli odiati ausiliari del traffico che danno le multe, gli impiegati che fanno la pausa caffè tutti in gruppo.
All’ora di pranzo i rumori cambiano, il traffico diminuisce, le voci quasi scompaiono per mezz’ora, poi per un’altra mezz’ora si assiste al passeggio post prandiale degli impiegati che, a gruppi di colleghi, tentano di digerire i piatti del giorno che hanno appena mangiato. Più che camminare fanno lo struscio, circumnavigano l’isolato, tornano alla piazza e scompaiono dentro i portoni.

Mamme, nonni e spritz

L’animazione riprende dopo le quattro del pomeriggio, quando mamme e nonni portano a casa o ai giardinetti i bambini dell’asilo e delle scuole lì accanto, e allora si sentono chiacchiere, risate, pianti, capricci monumentali, sgridate, richiami, raccomandazioni, contrattazioni. In estate il passeggio pomeridiano cambia e la piazza diventa dominio di gruppi di adolescenti che si incontrano, parlottano per decidere come e dove trascorrere il resto della giornata.

 

Quando alle sette i negozi e l’edicola cominciano a chiudere, inizia l’ora dell’aperitivo e allora si vedono coppie e gruppi di amici o colleghi che vanno a regalarsi l’happy hour a base di spritz, spumante, salatini, pizzette, tartine, salse, patatine e sai già che resteranno al bar fino all’ultimo, a chiacchierare finché il titolare li caccia.
Dalle nove in poi, quando tutto è chiuso, lo spettacolo della piazza si sposta alle finestre le cui luci illuminano una cucina qui, un soggiorno là, un bagno a destra, un balcone a sinistra. Il gioco dell’eco a volte rimanda rumori di piatti e stoviglie, voci, una televisione, dell’acqua che scorre e sembra di entrare nelle case degli altri.

 

A scandire tutto ciò, per tutto il giorno, come un orologio, è il tram che, più l’ora si fa tarda, più si spopola ed è frequentato quasi solo da donne, ragazzi o immigrati. Gli altri o restano a casa o usano l’auto, a parte gli indefessi della bicicletta che senti non per via della dinamo, ma perché nella piazza ci sono il pavet e le rotaie per cui è tutto uno sballottare di ruote, sellino e pedali. E poi la dinamo non la usa quasi più nessuno, ora vanno le luci al led togli e metti. Efficaci, comode, silenziose. Ma senza poesia.
(3.continua)

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