È una sorte amara quella dell’imprenditore di Altamura, Francesco Di Palo, che venerdì scorso ha tentato di darsi fuoco dinanzi al palazzo della Prefettura di Monza. Un gesto esasperato dalla latitanza e inefficienza di uno Stato che non ha saputo proteggere un cittadino coraggioso e la sua famiglia. Di Palo è, infatti, un testimone di giustizia, recentemente escluso, insieme ai suoi familiari, dal relativo programma di protezione, nonostante continui a denunciare gravi minacce e ritorsioni.

Di Palo era titolare della Venere srl di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di collaborare con la magistratura locale denunciando i soprusi subiti dalla mafia murgiana. L’imprenditore durante la sua attività è stato più volte avvicinato da mafiosi locali per estorcergli denaro in cambio di una presunta sicurezza sociale e imprenditoriale. Da lì la decisione di denunciare i suoi aguzzini.

Le sue dichiarazioni rilasciate alla Dda di Bari portarono al rinvio a giudizio di numerosi mafiosi, tra i quali gli affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori compiacenti, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici e amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Sempre dalle sue denunce si svilupparono altri filoni di indagine che consentirono al Tribunale di Lecce di rinviare a giudizio circa venti persone accusati di aver agito ancora in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Dopo le denunce e i processi Di Palo non ha più avuto vita facile e le promesse fattegli sono evaporate come acqua al sole. Un uomo lasciato solo dallo Stato, costretto a minacciare e infine a compiere atti estremi con lo scopo di attirare l’attenzione sul suo caso.

Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Sono molti i testimoni di giustizia, come Ignazio Cutrò, Piera Aiello, Lea Garofalo, Pino Masciari e sua moglie Marisa Salerno, figure chiave in decine di processi, a ritrovarsi soli, abbandonati dallo Stato.

I testimoni di giustizia in Italia sono 85, la maggior parte tra i 26 e i 60 anni. Nel programma di protezione del Viminale ci sono anche 253 loro familiari, di cui 103 hanno tra i 0 e 18 anni. Famiglie che vivono disagi continui e che denunciano, anche mediante la loro associazione, le molte promesse mancate da parte di tutti i governi, quello Renzi compreso. Già nel febbraio 2014 molti di loro protestarono davanti la sede del ministero dell’Interno. Anche in quel caso promesse e grandi illusioni. Poi il silenzio.

In Italia la sorte di queste famiglie è davvero appesa a un filo. I vuoti normativi sono enormi e l’inefficienza della burocrazia li espone a continue frustrazioni e pericoli. La loro sorte è formalmente decisa dalla Commissione centrale, ma gestita dal Servizio centrale di protezione del ministero dell’Interno (che gestisce anche i collaboratori di giustizia), al quale sono stati tolti 25 milioni di euro, nonostante il suo bilancio fosse stato già risanato e razionalizzato. Un colpo durissimo per chi si occupa di lotta alle mafie. Il taglio è la conseguenza della variazione di bilancio collegata alla legge di stabilità del governo Renzi.

Una possibile svolta che avrebbe aiutato i testimoni a ricostruirsi una vita era rappresentata dalla legge dell’ottobre del 2013 che prevedeva il diritto alla loro assunzione nella Pubblica amministrazione. Una norma anche in questo caso inefficace. Manca infatti il relativo decreto attuativo, firmato dai ministri Alfano e Madia prima dell’ultimo Natale, ma non ancora pubblicato.

La situazione diventa, se possibile, ancora più grave per i testimoni di giustizia sottoposti al programma speciale in località segreta. I loro “documenti di copertura” adoperati per nasconderne a fini di tutela l’identità, non hanno alcun valore legale costringendo le persone a comportamenti spesso contraddittori. Ciò vale per qualunque loro attività, obbligati a vivere in un limbo fatto di assurde complicazioni.

L’apoteosi è stata raggiunta nel maggio del 2014 con il vice ministro dell’Interno Bubbico, il quale in pompa magna annunciò la redazione di una “Carta dei Diritti” dei Testimoni di giustizia, di cui ad oggi, a quasi un anno di distanza dall’impegno pubblico, non c’è traccia.

E in Sicilia? Le cose non vanno meglio. La relativa legge regionale, che prevede un percorso più efficace per l’assunzione dei testimoni di giustizia nella Pubblica amministrazione, avendo previsto risorse economiche ad esso dedicate, ad oggi non è operativa e nessuno dei testimoni (che sono la maggioranza del totale) ha potuto sinora firmare un solo contratto.

La Commissione Antimafia, attraverso il V Comitato coordinato da Davide Mattiello, ha condotto un’accurata inchiesta e prodotto una relazione, approvata all’unanimità, preludio a una proposta di legge di riforma. Un possibile riscatto, a patto di un sostegno politico ampio e determinato.

Chi rischia in prima persona, deve poter contare sullo Stato. Non si può chiedere ai cittadini di denunciare boss, affiliati e criminali, e poi lasciarli soli. Forse aveva ragione De Andrè, quando in Don Raffè cantava «prima pagina venti notizie, ventuno ingiustizie e lo Stato che fa. Si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità». A Bubbico, Alfano e Renzi decidere se cambiare musica o continuare con la retorica dello Stato anti-mafia.