La vita è molto seriale
Fotografia «Conversazioni intorno a un tavolo», il libro intervista a Alec Soth, con il critico Francesco Zanot, edito per Contrasto
Fotografia «Conversazioni intorno a un tavolo», il libro intervista a Alec Soth, con il critico Francesco Zanot, edito per Contrasto
Viviamo un buon momento per la fotografia; il mondo dell’arte – sebbene con qualche fraintendimento, soprattutto in Italia, di derivazione tardivamente pittorialista – la accoglie come mai prima d’ora; i fotografi considerano la galleria o il libro come luogo naturale per il loro lavoro.
Le immagini di Alec Soth – autore nato e cresciuto a Minneapolis – coniugano i generi del paesaggio, del ritratto e della natura morta. Soth ha esordito con Sleeping by the Mississippi (Steidl, 2004), un lavoro lungo il grande fiume americano, omaggio e prosecuzione dell’eredità di William Eggleston. All’opera di Soth è dedicato un libro molto utile per comprendere il modo di lavorare degli autori contemporanei di qualità: Conversazioni intorno a un tavolo (Contrasto, pagg. 179, euro 21,50). È un volume intervista, che fa parte della serie «Lezioni di Fotografia», nella collana Logos. Dove per tavolo si intende anche «il modo in cui nello studio di Minneapolis trascorrevamo le nostre pause, lasciando stampe, libri e registratori per prendere in mano le racchette da ping-pong». Così scrive il critico Francesco Zanot, coautore del volume.
Zanot, dopo avere selezionato 78 fotografie – note e meno conosciute – di Alec Soth, imbastisce domande sapientemente calibrate a svelare un vero e proprio ritratto caratteriale oltre che professionale dell’autore americano. Soth è un artista che lavora – come molti fotografi contemporanei – tramite serie di immagini che nell’accumulo rappresentano una storia cercata e inseguita per anni: «Ho sempre sostenuto che il parente più prossimo della fotografia sia la poesia, per il modo in cui stimola l’immaginazione e lascia allo spettatore delle lacune da colmare».
I suoi scatti si possono senz’altro considerare singolarmente, ma si esplicitano soprattutto all’interno di una sedimentazione, che si manifesta attraverso la sequenza a cui appartengono. La sfida di «questo libro potrebbe sembrare in conflitto con una simile impostazione, le fotografie compaiono al di fuori del loro contesto originario, e sono prese in considerazione come immagini completamente autosufficienti». Zanot cita Guido Guidi come nume tutelare dell’analisi fuori contesto delle 78 fotografie di Alec Soth: la buona sequenza editoriale può partire da qualunque punto al suo interno.
Così il critico estrapola dal flusso del fotografo un’immagine alla volta, un po’ come quando, in uno di quei rari libri di racconti che la letteratura ci regala, possiamo iniziare a leggere indifferentemente a metà del volume e nulla si perde, e anzi, la continua ricombinazione svela nuove tracce di senso; così, la riconquistata condizione solitaria dell’immagine stessa obbliga l’autore a una riflessione ulteriore, una sorta di backstage intimo, grazie al quale conosciamo la macchina con cui l’artista ha lavorato per quella specifica immagine, la dimensione delle stampe, la bugia necessaria affinché un ritratto sia sottratto alla vita per consegnarlo all’opera, la combinazione consapevole con cui, dice Zanot «azione e imprevisto si uniscono al rigore compositivo e alla profusione di dettagli».
Alec Soth non si esprime con un linguaggio simbolico, vuole piuttosto che le sue combinazioni possiedano lo stesso spessore della realtà. A volte decide di creare – senza nessuna particolare eleganza o stile personale, attraverso dei modelli – formule di realtà che il fruitore riconosce poi, con imbarazzo, insieme famigliari e improbabili: «Io utilizzo il linguaggio della fotografia e di conseguenza anche la sua storia. Per questo le voci degli altri emergono in continuazione».
L’artista racconta di un progetto per un giornale, The Brighton Argus. Avrebbe dovuto farsi assumere per vedere il sud dell’Inghilterra con gli occhi di un fotografo di cronaca. Ma non aveva previsto che per essere impiegato in una azienda britannica avrebbe dovuto procurarsi un permesso di lavoro. Alla dogana lo lasciarono entrare, ma col divieto di scattare. Sua figlia Carmen, di sette anni, realizzò il lavoro, ma lui fece la selezione e l’editing. «Se mia figlia è in grado di realizzare su commissione una mostra degna di un museo, questo è frustrante, ma anche rivelatore», dice Soth. Nella iperproduzione di immagini a cui siamo sottoposti, «editare immagini è un atto creativo quanto realizzarle».
Le fotografie «girano» la realtà, in una parola, in modo corretto, ma appunto diverso dal vero. Di fronte a questa inattesa storia di se stesso, il fotografo è ancora una volta nella medesima condizione del protagonista di Blow-up, di Antonioni: ha scoperto il delitto e trovato il cadavere nel punto suggerito dalla lettura delle fotografie, ma queste gli saranno rubate e con esse ogni prova. Non resta altro da fare che raccogliere, come nel film, una palla da tennis, o le più leggere palline da ping pong dello studio di Soth a Minneapolis. Accostati al tavolo, uno alla battuta, l’altro alla risposta, Zanot e Soth ricominciano e – mentre la pallina sta per essere colpita dalle rispettive racchette – sembrano ricordarci: l’arte esiste, perché, avrebbe detto Ballard, la realtà non è né reale né significativa.
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