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La visione di Belafonte

La visione di BelafonteHarry Belafonte

Miti/Attivista, cantante, attore, negli anni Cinquanta porta il calypso in classifica negli Usa

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 maggio 2023

Dai media ai social, quasi tutti, a partire dal giorno della scomparsa lo scorso 25 aprile, rimarcano l’importanza del «personaggio» Harry Belafonte come uomo di spettacolo, «impegnato» anche nella lotta per i diritti civili, quasi a tener distinte la professione dalla filantropia, calata nel sociale o addirittura nella militanza. Senza tornare a resuscitare lo slogan post ’68 il «personale è politico» (e viceversa, occorrerebbe aggiungere) la vita e l’arte di Belafonte non solo risultano strettamente correlate nel corso di una lunga esistenza quasi interamente occupata dall’engagement nei diversi linguaggi performativi (musica, teatro, cinema, televisione), ma soprattutto rispecchiano una battaglia costante e coerente verso la piena affermazione nella (e della) cultura afroamericana.
Dunque non si può comprendere appieno l’importanza oramai storica (e già ampiamente storicizzata) del Belafonte «musicista», senza quella del «politico»: partendo dalla «questione musica», la sua non è un’arte strettamente ideologica o schierata, come quella della generazione precedente ad esempio con un Paul Robeson (1898-1976), cantante e attore, vicino al Partito comunista americano, che effettua tournée nell’Unione Sovietica, vincendo addirittura il Premio Stalin per la Pace (nel 1952, lo stesso anno in cui Harry incide il primo successo Matilda); e nemmeno si imparenta ai molti esponenti del free jazz dei Sixties (Archie Shepp in testa) che lavorano spesso a fianco delle Pantere Nere: non è forse casuale però che l’epoca del potente Fire Music (1965) dell’arrabbiato tenorista sia la stessa dell’incontro con la vocalist e attivista sudafricana in esilio Miriam Makeba (futura moglie di Stokely Carmichael, leader delle Black Panther), ispiratrice del 33 giri An Evening with Belafonte/Makeba, i cui brani trattano spesso i temi dell’apartheid.

TRASVERSALITÀ
Il segno e il valore strettamente politici della musica di Belafonte stanno comunque nell’essere trasversali all’interno della summenzionata cultura afroamericana. Come definirne il repertorio? Calypso, certamente, come viene subito scritto da alcuni giornalisti, i quali – dopo l’exploit di Day-O (The Banana Boat Song) – nominano il cantante «Re», suscitando le ire diplomatiche di Trinidad & Tobago; tuttavia l’interprete, talvolta autore, in quanto tale, rifiuta l’inquadramento in comode etichette, preferendo definirsi rinnovatore delle tradizioni folkloriche. In effetti, pur rientrando nel generale (e generico) filone della popular music, ovviamente di netta matrice black (in questo caso afrocaraibica), le canzoni di Belafonte si offrono appunto quale «trasversalità» nel percorrere di volta in volta un gusto lounge ed exotica che, con il passare del tempo, sfocia in una world music ante litteram.
Il successo commerciale di brani tanto melodici quanto fortemente ritmati, è visivamente parlando – recital, apparizioni tv, copertine di dischi – spesso incorniciato da una messinscena etnicheggiante che risulta quindi il pendant estetico di ciò che Belafonte sta elaborando: tanto sul piano teorico (attraverso la lettura delle opere di W.E.B. Du Bois) quanto nella prassi quotidiana di un accanimento mediatico razzista, Harry si rende ben presto conto di essere il cittadino americano discriminato a livello di qualunque persona marchiata «coloured» in una nazione ancora profondamente divisa, sino a metà degli anni Sessanta, fra sinceri democratici e seguaci più o meno inconsci del Ku Klux Klan.
In tal senso Belafonte, sul finire degli anni Cinquanta, quando la fama è all’apice – anche grazie al primo disco dal vivo, At Carnegie Hall, che supera il milione di copie vendute – resta fra i primi artisti a stringere una sincera amicizia con Martin Luther King, diventandone subito ardente sostenitore, soprattutto nella ricerca dell’uguaglianza, della giustizia e del dialogo che il leader pacifista ingaggia attraverso raduni e discorsi in pubblico. Harry investe persino i dollari guadagnati con dischi, film, concerti per avviare il Comitato di coordinamento nonviolento degli studenti, ingaggiando altresì una raccolta di fondi per la Southern Christian Leadership Conference dello stesso King.
E da allora, fino alla morte, il cantante mette mano al portafogli per aiutare il Reverendo, i familiari, l’entourage nei momenti più difficili: è lui a pagare le cauzione per togliere dalle galere il «dottore» e gli attivisti imprigionati durante gli scioperi o le proteste per i «civil rights»; a offrigli ospitalità a New York nello spazioso appartamento a West End Avenue che per King diventa la sede operativa quando è lontano dalla sua Atlanta; a mantenere una polizza assicurativa sulla vita del leader, con la famiglia King come beneficiaria, offrendo ulteriore denaro per assicurarsi che la vedova e i figli vengano assistiti dopo il brutale assassinio del 4 aprile 1968.

«WE ARE THE WORLD»
Attivismo e beneficenza si intensificano negli anni Ottanta, quando Belafonte, contribuisce a organizzare un boicottaggio culturale verso il Sudafrica, rinunciando assieme a tanti altri musicisti (come Miles Davis) a lauti cachet per esibirsi a Sun City, chiusa al pubblico nero; è tra i promotori del concerto Live Aid e della registrazione del singolo e dell’album We Are the World, assieme ai maggiori esponenti di pop, rock, jazz, soul, folk americani onde raccogliere fondi per combattere la carestia in Etiopia. Nel 1986, incoraggiato da alcuni leader del Partito Democratico dello stato di New York, prende in considerazione l’idea di candidarsi al Senato degli Stati Uniti, ma rinuncia, perché l’anno successivo, gli viene offerto il posto dell’anziano umorista Danny Kaye quale ambasciatore di buona volontà dell’Unicef.
Con il passare degli anni Belafonte viene spesso interpellato dai media su opinioni politiche, in virtù della schiettezza con cui emette giudizi più che motivati, senza autocensure, come invece accade a molti suoi blasonati colleghi: nel 2002 durante l’amministrazione di George W. Bush è talmente schietto da accusare il segretario di stato Colin Powell di rinunciare ai principi di afroamericano pur di «entrare nella casa del padrone» e quattro anni dopo definisce il presidente come «il più grande terrorista del mondo».
Belafonte, nel 2013, risulta talmente deciso e incentivato nelle votazioni del sindaco di New York, da condurre un’agguerrita campagna elettorale per il candidato democratico (poi vittorioso) Bill De Blasio, paragonando i fratelli Koch – ricchi industriali noti per il loro sostegno verso i repubblicani più reazionari – ai «suprematisti bianchi» filonazisti (affermazione da cui lo stesso neoeletto deve prendere in fretta le distanze).
Le frasi al fulmicotone del cantante lo rendono bersaglio delle destre, senza che nessuno sia però in grado di contestargli la forza artistica che, al contrario, gli frutta sempre nuove onorificenze, assai frequenti negli ultimi periodi, dal Kennedy Center Honor (1989) alla National Medal of Arts nel (1994) dal Grammy alla carriera (2000) alla Rock and Roll Hall of Fame (2022). Forse il premio a lui più congeniale o significativo resta quello del 2014, quando l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences gli concede il Jean Hersholt Humanitarian Award in riconoscimento della sua lotta per i diritti civili e per altre cause umanitarie: un trofeo, come all’epoca scrive il Times, che gli dona «un forte senso di ricompensa», nel senso del risarcimento morale.
E proprio su quella testata il giorno delle presidenziali 2016, Belafonte pubblica un articolo che esorta le persone a non votare Donald Trump, definendolo «incapace e immaturo». Rivolgendosi agli elettori afroamericani scrive: «Il signor Trump ci chiede cosa abbiamo da perdere; noi dobbiamo rispondere: solo il sogno, solo tutto». Del resto già nell’autobiografia My Song (2011) confessa: «Riguardo alla mia vita, non ho lamentele, eppure i problemi affrontati dalla maggior parte degli americani neri sembrano terribili e radicati come lo erano mezzo secolo fa».

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