Ci sono, nella vita individuale e ancor più in quella collettiva, tempi così oscuri che la scelta dell’essenziale diventa difficile quanto decisiva. La guerra è uno di questi. Il Novecento ne sa qualcosa, da «è impossibile scrivere una poesia dopo Auschwitz» di Adorno, al «come potevamo noi cantare» di Quasimodo.

EPPURE RIMANE LÌ un dovere di resistenza, contro l’abbrutimento al servaggio proprio di ogni guerra, l’obbligo etico a non recedere dal proprio lavoro, alla coltivazione dell’umano. La poesia, nel suo aristocraticismo scostante e vicinissimo ne è parte, per cui, nell’inverno della nostra angoscia, apriamo una pagina: «Scappare/ inseguiti da eserciti/ sgomenti per deserti/ con acqua di cactus/ rintanarsi in anfratti/ sotto ponti ferrovie/ strade il cemento/ per bloccare e acqua/ sempre l’acqua del mare,/ ignotissimo e solo». Ma non è odierna cronaca di guerra. Le metafore inviano a una profondità corporea, vera sorgente ispirativa: «Nel profondo sommerso/ intimo più intimo/ dove non è parola/ né pensiero, là corpo/ là anima là seppi/ tutto della battaglia». Il valore della raccolta di Marina Massenz (Ossa e cielo, prefazione di Alessandra Paganardi, Puntoacapo edizioni, pp. 53, euro 12) sta nel portare alla luce la violenza che silenziosamente impregna il vivere quotidiano della nostra vita la quale, in certi anfratti della storia, esplode nelle superfetazioni degli stati maggiori.

Massenz non è certo digiuna della poesia del Novecento, a principiare dal primo Montale, cui discretamente rinvia lo stesso titolo Ossa e cielo, o, più scopertamente, la poesia inaugurale, con il riuso della celebre doppia negazione («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo») qui esibita proprio in avvio: «Noi che lievi non siamo/ che lievi non sappiamo». Tuttavia gli echi, certe movenze e asprezze sonore sono piegate a un sentire che, come certa scrittura di donne, sa portare la parola in zone fonde dell’esistenza e delle relazioni. Al centro della meditazione, quasi un canto notturno, è la rievocazione del padre scomparso, cui la raccolta è espressamente dedicata, avvicinamento che è insieme messa a confronto con il sé bambina e adolescente. Ma la meta è raggiunta solo nella seconda parte della raccolta, dopo l’attraversamento di un paesaggio interiore e collettivo scheggiato, dove irrompono gru «in cerca di ali» come relitti di un profilo urbano stranito, migranti affogati «nel glaciale liquido nero», la devastazione «che falciando procede» fino allo scempio dei preziosi abeti rossi già materia dei liutai, grottesche figure femminili di bagnanti che «si truccano da pesci», le «creature mostruose» degli uomini del potere.

LA VOCE PRENDE FORMA in un paesaggio opaco e oscuramente minaccioso, snodandosi in versi brevi che, salvo rari momenti di felicità come nel finale dedicato a Biagio Marin, nulla concedono al cantabile, in questo assecondati dalla dominante consonantica del lessico. Ma forse ciò che più caratterizza la tessitura linguistica è il ricorso a una sintassi sbrecciata, deprivata in ampie zone di ogni segno interpuntivo, tanto più che le lunghe sequenze sintattiche, già di per sé non immediatamente riconoscibili, sono indipendenti – e vorremmo dire estranee – al ritmo del verso. Così gli enjambement, pur assai frequenti, perdono la tradizionale funzione melodico-emotiva e s’istallano nel verso come bronchi, oppure apparenze ingannevoli che solo la rilettura svela.
A contraltare di questa asprezza, qua e là il testo si concede il cantabile di giunture etimologiche come «fili filati», o rimiche come «portoni e vagoni». È il modo per restituire la fatica e il limite di portare alla consapevolezza della parola l’irragionevole distruzione di umani e natura, il senso oppressivo di morte, il bisogno insopprimibile e vitale ora della tenerezza dell’abbraccio, ora dell’intesa gioiosa e complice.