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La violenza che lega e separa dopo la fine della lotta

La violenza che lega e separa dopo  la fine della lottaUna scena da Una donna chiamata Maixabel

Al cinema In sala «Una donna chiamata Maixabel» di Icíar Bollaín, l’Eta tra vittime e ex militanti, un incontro asimmetrico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 13 luglio 2023

Tolosa, luglio 2000. Juan María Jaúregui Apalategui, ex Governatore civile di Guipuzkoa, è seduto in un bar. Parla tranquillamente con un amico. Fuori, Ibon Etxezarreta guida una automobile rubata. Accompagna due persone che entrano in quello stesso locale e sparano alla nuca del politico socialista, ignaro in quel momento di essere il bersaglio di un gesto così violento e definitivo. Aveva immaginato che prima o poi sarebbe potuto accadere, forse non quel giorno. Il commando che ha pianificato quell’azione fa parte dell’Eta, l’organizzazione socialista rivoluzionaria basca per la liberazione nazionale. In un appartamento, Maixabel Lasa riceve una telefonata. Suo marito è morto.
Passano quattro anni, si celebra un processo. Tra gli accusati del gruppo armato basco, vi è anche Ibon. Per lui e i suoi compagni è prevista una pena detentiva interminabile. È il 2010 e il detenuto riceve la notizia della morte di suo nonno. Ha diritto a un’uscita per partecipare al funerale in chiesa o per stare con la famiglia a casa. Sceglie di trascorrere questa piccola porzione di tempo fuori dalle mura del carcere con sua madre. Ora, trasferito in un altro istituto, può godere di alcuni permessi. Non ritratta nulla di quello che ha fatto. Forse non è pronto per ripensare alle sue azioni, forse nasconde a se stesso, prima che agli altri, lo sgretolarsi delle sue certezze. A che altro potrebbe aggrapparsi per dare senso alla propria esistenza?

IN QUESTI ANNI, Maixabel è diventata la direttrice di un’associazione che riunisce le vittime dell’Eta. La donna combatte affinché si possano rappresentare tutte le persone colpite da azioni violente, di qualsiasi matrice, anche da parte della polizia. Una battaglia che non ha esattamente il consenso dell’opinione pubblica.
Una donna chiamata Maixabel di Icíar Bollaín è la storia dell’approssimarsi a un incontro, quello tra Maixabel e Ibon, per certi versi casuale, sicuramente asimmetrico, poiché la vittima non ha scelto di essere protagonista di una storia orribile scritta da altri. È il cosiddetto «vittimizzatore» che ha causato la coincidenza delle traiettorie.

QUANDO Maixabel e Ibon si vedono per la prima volta, non considerando i giorni del processo, entrambi hanno affrontato situazioni laceranti. Perché il privato e il pubblico nel loro mescolarsi complicano drammaticamente il quadro. Maixabel è un personaggio riconosciuto da una comunità e si impegna (senza averlo richiesto) per i tanti e, al tempo stesso, è una donna che ha perso l’uomo che amava, che ha subito un trauma, che ha dovuto elaborare un lutto e che ha una figlia con la quale condividere sentimenti positivi e negativi. Ibon è un militante che pensa di aver agito per qualcosa di più grande e dunque non si sente responsabile. Eppure, dentro di sé, sa di aver partecipato a qualcosa di indicibile. Anche lui, a suo modo, deve elaborare un lutto. Per le sue idee, ha perso il mondo, cioè quello spazio plurale dove le identità sono più forti dei ruoli e dei simboli.

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