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La versione di Bollywood

La versione di BollywoodIl primo remake made in Bollywood di un’opera straniera arriva nel 1966: «Kohraa» ossia «Rebecca, la prima moglie», pellicola del 1940 di Alfred Hitchcock

Fenomeni/Grandi film del passato rivisitati in musical dall’industria cinematografica indiana Bizzarre e insolite pellicole spesso mai arrivate nel nostro paese, colme di canzoni, policromie e coreografie travolgenti. Il primo ad essere riletto fu «Rebecca, la prima moglie», nel 1966. Da allora il genere ha visto un florilegio di titoli

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 15 gennaio 2022

Vedere un film fatto a Bollywood è un’esperienza sensoriale e visiva non indifferente, al pari di una scorpacciata di dolci coloratissimi e gustosi, da Mille e una notte. Il cinema indiano made in Mumbai è famoso in tutto il mondo per i suoi eccessi, unico in quel mix roboante di musica, balletti e trame più disparate. D’altronde in quale altro paese possiamo trovare una concitata scena d’azione con sangue e proiettili, una roba alla John Woo per intenderci, e un minuto dopo vedere gli stessi attori lanciarsi in acrobazie canterine?
A Bollywood scorre a fiumi il ritmo, e tutto, anche un amplesso esagitato, ha la stessa movenza di un ballo. Pazzo, senza dubbio, scriteriato, anche, ma sicuramente delizioso con possibilità di dipendenza.
Bollywood, fusione di Bombay e Hollywood, è un’industria cinematografica che macina ogni anno film su film. Nasce ufficialmente il 3 maggio 1913, quando uscì nelle sale indiane Raja Harishchandra, un film muto basato sulla vita leggendaria di re Harishchandra e diretto da Dadasaheb Phalke. Da lì fu una strada in salita verso un linguaggio sempre più particolare, irripetibile nella storia del cinema mondiale, esportato in tutto il mondo ma difficilmente imitabile. Segno distintivo dei film bollywoodiani sono le ambientazioni colorate, la trama drammatica e i protagonisti che si corteggiano cantando. Sono famosi anche per le elaborate coreografie, ispirate sia ai musical hollywoodiani degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, sia alle danze indiane. In India si vendono oltre 3 miliardi di biglietti all’anno: non sorprende che le star del cinema indiano vengano adorate come divinità, al pari delle idol giapponesi.
Caratteristica delle produzioni di questa industria è il pastiche di umori locali con una voglia di raccontare internazionale, un’esigenza che non poteva non creare dei remake di successi (ma anche di film non famosi) esteri. Vi è piaciuto Tutti pazzi per Mary? Beh, a Bollywood ne esiste una versione musicale! Questo perché anche i rifacimenti indiani hanno tutti quella strana voglia di ballare. Ne abbiamo trovati di bizzarri, inaspettati, la maggior parte pellicole che in Italia, purtroppo o per fortuna, non sono mai arrivate, ma che racchiudono all’interno canzoni, colori e coreografie così scatenate da far impallidire il Moulin Rouge di Baz Luhrmann. Col dubbio (lecito): e se fossero migliori degli originali?

L’INIZIO
Il primo remake made in Bollywood di un’opera straniera arriva nel 1966: Kohraa ossia Rebecca, la prima moglie, pellicola del 1940 di Alfred Hitchcock, rivisitata in salsa indiana. Ovviamente quando il modello di riferimento è un maestro del cinema, come l’autore di Psycho e Vertigo (La donna che visse due volte), il confronto è impari, ma questo thriller, ovviamente musicale, di Biren Nag non è per niente male. La storia, tratta da un romanzo di Daphne du Maurier, è fondamentalmente la stessa: una donna fresca di matrimonio scopre che il fantasma della prima moglie di suo marito infesta ancora la loro casa. A rendere Kohraa un buon remake ci pensa un’ottima fotografia, un’atmosfera molto cupa e minacciosa, e un gruppo di attori convincenti, tra i quali spicca Lalita Pawar, nel ruolo di una sinistra governante. Le canzoni sono abbastanza gratuite, soprattutto per un pubblico occidentale non abituato al repentino passaggio tra parti cantate e musicate, specialmente per un genere asciutto come quello thriller. Se ci si fa l’abitudine però il risultato ha un certo fascino weird. Il produttore di questo film, Hemant Kumar ha composto tutti i brani musicali, tra i quali Ye Nayan Dare Dare e Raah Bani Khud Manzil, romantici, pop e non dissimili come tonalità dal nostro In ginocchio da te, in chiave però meno rock e più melò alla Mario Merola. A spiccare per atmosfera, un misto tra musica dolce e raccapricciante, è Jhoom Jhoom Dhalti Raat, cantata da Lata Mangeshkar, litania che riemerge nelle parti più angosciose della pellicola, quelle che vede la bella Waheeda Rehman aggirarsi tra le stanze del maniero mentre la nebbia (da qui il titolo Kohraa) sale e il fantasma della prima moglie emerge da essa, mai ripresa integralmente come in un gotico di Mario Bava o Roger Corman. A leggere i commenti su Internet sembra che questa canzone sia molto amata dai fan indiani («C’è una ragione molto reale per cui queste melodie inquietanti sono state cantate esclusivamente da Lata. È l’unica voce talmente bella da darti i brividi!», «Una delle canzoni più inquietanti, che ascolto quasi quotidianamente da circa 50 anni», «È terrorizzante»).
Rebecca, la prima moglie vanta molti rifacimenti, più ispirati a Hitchcock che al libro di Daphne du Maurier, ma uno dei migliori, quello con più atmosfera, a un passo dall’horror, è senza dubbio questa pellicola di Biren Nag, un gioiello tra i remake di Bollywood.

DIECI ANNI
Per aspettare di vedere un altro remake bisogna attendere più di dieci anni quando nel 1977 esce Inkaar, rifacimento di un capolavoro anni Sessanta di Akira Kurosawa, Anatomia di un rapimento. A vincerla è ovviamente il modello originale, baciato da un gelido bianco e nero con l’eccezione del fumo rosa di una ciminiera, idea sì ripresa da Ejzenstejn e La corazzata Potëmkin ma imitata da tanto cinema futuro (Francis Ford Coppola in Rusty il selvaggio e Steven Spielberg in Schindler’s List, su tutti). Siamo in campo noir, la regia di Raj N. Sippy, alla sua prima prova, è più attenta al ritmo che alla tecnica, rozza ma comunque efficace. Inkaar vive di colori, vivaci e da fumetto, e di una certa brillantezza sia nelle scene d’azione che nei momenti musicali, tra i quali il migliore, e il più celebre, è il pezzo di danza all’interno di un bar malfamato. È lì che brilla, con vestiti degni di un caleidoscopio, gonna e camicia che lasciano libero il ventre perfetto, la ballerina Helen (Jairag Richardson), capace di ammaliare i peggiori criminali sulle note della hit O Mungada Mungada cantata da Usha Mangeshkar. Le sue movenze sexy e armoniche culminano nel momento che vede la danzatrice in mezzo ai malviventi, ancheggiando spavalda, con in mano una bottiglia che versa addosso ai suoi avventori.
Da lì è una sequela di remake, non ufficiali, quasi da contrabbando, contraddistinti sempre da un grande ritmo nel confezionare le immagini che rende molte volte questi pachidermi cinematografici, dalla durata sempre superiore alle due ore, cugini dei videoclip.

MODELLO ITALIA
In meno di 25 anni, lanciati verso il nuovo millennio, i rifacimenti di film esteri sono tanti e vari, alcuni incredibilmente di pellicole minori anche italiane. È il caso di Lady Hostel, oscuro remake, anche in patria, di Aenigma del nostro Lucio Fulci, horror del 1987 girato a Sarajevo dal piccolo budget ma dalle grandi idee. Questa pellicola, filmata con una precisione alla Gus Van Sant di riproposizione fedele dell’originale, scena per scena, arriva tre anni dopo, e su siti come Imdb, la bibbia virtuale per cinefili, se ne conoscono pochi dettagli: la scheda è lacunosa e senza nessuna recensione. A girarlo è Ramesh Kumar, alla sua prima e, sembra, unica prova, surclassando i nudi presenti nel film originale e tagliando la sua scena clou, un assalto di lumache voraci sul corpo svestito di una giovane e sfortunata studentessa. La trama è la stessa: una ragazza, vittima di uno scherzo crudele delle compagne di scuola, finisce in coma, ma con i suoi poteri si vendicherà del sopruso. Ramesh Kumar si rivela un buon esecutore, ripete i virtuosismi del maestro italiano, e, come tradizione indiana vuole, conferisce alla storia un ritmo che il modello, lento e meditativo, non aveva. La scena migliore mostra, con un montaggio concitato, simile stavolta a un altro Fulci, Murderock, gli occhi spalancati della protagonista mentre le compagne di scuola si lanciano, mani in alto e scaldamuscoli alla Flashdance, in una danza scatenata davanti al professore di ginnastica. Musica elettronica, luci stroboscopiche, melodie che intervallano il tipico motivo arabeggiante dei canti di Bollywood, rendono questo segmento, inedito e azzardato, la parte più coinvolgente di un’opera che meriterebbe una riscoperta e una dignità che l’oblio non gli ha dato. Tre sono le canzoni, scritte da Brij Bihari e cantate con energia da Kavita Krishnamurthyji: Husn Ka Yeh Mela, Chandani Raat e Dil Hai Mera Ghayal, tutte molto efficaci e orecchiabili.

OPERA INFINITA
Lady Hostel però non sarà il primo remake di un film di Lucio Fulci: nel 1991, un anno dopo Lady Hostel, viene girato 100 Days, opera più fortunata della precedente, e rielaborazione di un thriller del regista romano, Sette note in nero del 1977. La storia vede una giovane donna, Devi (Madhuri Dixit, regina del cinema indiano), alle prese con una serie di premonizioni riguardanti un caso di omicidio. Se il film originale è un piccolo capolavoro, lo stesso è 100 Days, un’opera dalla durata infinita (ben 141 minuti), intervallata da buonissime canzoni, ma con un’atmosfera assolutamente originale, debitrice dei cromatismi del Dario Argento di Suspiria. Gli attori sono tutti eccellenti, c’è grande alchimia tra la bellissima Madhuri Dixit e il suo partner Jackie Shroff, e la regia di Partho Ghosh è stilosa, avvincente, grintosa nei momenti onirici e macabri, come una grande scena d’azione ambientata in una discarica. Le musiche sono firmate da Vijay Patil (Sun Beliya, Gabbar Singh Yeh Kehkar Gaya, Le Le Dil De De Dil, Pyar Tera Pyar, Tana Dere Na Tana Na De, Sun Sun Sun Dilruba) e cantate in gran parte da Lata Mangeshkar e S.P. Balasubramaniam che doppiano i protagonisti durante le canzoni. I balli sono strepitosi, ricordano le coreografie di Patricia Birch per Grease: movimentate, spiritose e con una grande senso del ritmo. 100 Days vive due anime, una orrorifica, l’altra più buffa, ma incredibilmente riesce ad amalgamare perfettamente questa discrasia in un prodotto perfetto e unico, tanto che lo stesso Lucio Fulci sembra fosse orgoglioso di questo remake.

VIA I NUDI
Fino al 2001, sugli schermi indiani, si intensificano le risposte non ufficiali di Bollywood ai successi stranieri: vengono rifatti, tra i molti altri, Sette spose per sette fratelli, Non guardarmi: non ti sento, La mano sulla culla, La guardia del corpo, Com’è difficile farsi ammazzare, Mrs Doubtfire, Il matrimonio del mio migliore amico e Leon.
Tra questi, tutti di buonissima fattura e grande creatività, spicca Pehla Nasha, risposta azzardata a un capolavoro postmoderno come Omicidio a luci rosse di Brian De Palma. Rifarlo migliore sarebbe stato impossibile, un po’ come capitò per Rebecca, la prima moglie, ma l’opera di Ashutosh Gowariker è così briosa e piena di ritmo da risultare convincente. Ovviamente Pehla Nasha è edulcorato rispetto all’opera originale: abbiamo sì un protagonista guardone, il nipote erotomane di James Steward ne La finestra sul cortile, ma via gli accenni all’industria pornografica e soprattutto via i nudi che resero celebre Melanie Griffith, qui sostituita dalla più morigerata Raveena Tandon, attrice indiana di rara bellezza. Tutte le canzoni sono scritte dal paroliere Anand Bakshi e musicate dal duo Neeraj Vora & Uttank Vora: sei brani (Mr. Zero Ban Gaya Hero, Aaj Raat Bas Mein Nahin Dil, Tu Hai Haseena, Main Hoon Deewana, Sun Ke Yeh Fariyad Main Aa Gayi Hoon, Nadiya Kinare Dil Yeh Pukare e Pyar Ki Raat Ki Subha Na Hone Denge), tutti abbastanza disimpegnati ma molto orecchiabili.

NUOVI APPROCCI
Bollywood, come visto, è un’industria fiorente: tanti i film originali ma tanti, e di successo, anche i remake. Dal 2001 però il modo di approcciarsi ai film stranieri cambia: per la maggior parte delle volte si smette di plagiare, ma si pagano proprio i diritti alle case produttrici, con la conseguenza che, a differenza di un Judwaa che clona Twin Dragons con Jackie Chan, ora si parla proprio di rifacimenti ufficiali. Il problema della non originalità di molte opere indiane era stato smentito negli anni anche davanti all’evidenza: Pyar Toh Hona Ciao Tha, evidente rip-off di French Kiss con Meg Ryan, vanta da parte dei suoi autori una presunta originalità.
Il problema però, per assurdo, è che, liberi dall’accusa di plagio, i nuovi remake di Bollywood sono più spenti, meno creativi, a volte risultando soltanto una mera copia musicale di film occidentali. Anche il livello di follia dei vari balletti è meno marcato così come molte delle musiche risultano poco esaltanti, già sentite e figlie di un effimero gusto modaiolo degli spettatori più giovani.
Il film che più di ogni altro risente di questa inversione creativa è il mastodontico Ek Ajnabee, pellicola del 2005 che «remakizza» ufficialmente Man on Fire di Tony Scott di un anno precedente. Le cose si fanno stavolta alla luce del sole: la conferenza stampa si tiene a New York con la crew e il cast alla presenza di celebrità internazionali del pari di Naomi Campbell, Matthew Broderick e Sarah Jessica Parker. Non più ispirato a, ma la versione indiana di, una sottile differenza che regala sì dignità all’industria di Bollywood, non più relegata alla nomea di mercatino delle pulci cinematografico, ma che dall’altra ammazza la creatività, forse per paura di tradire il modello non avendo più la necessità di un trasformismo gaglioffo. Ne deriva che Ek Ajnabee è un ottimo film, girato molto bene da Apoorva Lakhia che fa suo anche lo stile schizofrenico di Tony Scott. Senza dubbio siamo davanti a un action dal sapore internazionale, interpretato da un efficace Amitabh Bachchan, gelido e fragile come Denzel Washington nel film originale. Il problema è che stavolta non è una pellicola derivata con fantasia da un’altra, è proprio Man on Fire, stessi dialoghi, stesse situazioni con l’aggiunta di balletti meno gratuiti del solito. La musica spazza dall’hip hop indiano all’elettronica da discoteca, tutto molto modaiolo ma meno brillante della colonna originale che spaziava dai Nine Inch Nails a Chopin. Ek Ajnabee è un film stranamente più corto, meno violento e con un finale nuovo, forse la parte migliore, con un combattimento concitato tra Amitabh Bachchan e il rapitore della sua figlioccia, che presuppone un happy end al posto dell’amaro epilogo della pellicola di Scott.
Giunge spontaneo però, a questo punto, chiedersi: a che cosa serve vedere una pellicola di Bollywood se ripropone pedissequamente lo stesso schema del modello estero? Quello che rendeva grandi pellicole come 100 Days o Inkaar era appunto il riuscire a ribaltare le aspettative: la storia era quella che si conosceva ma poi regista e sceneggiatore svirgolavano in sottotrame inaspettate e in balletti stupefacenti. L’arte del copiare, ce lo insegna il geniale Tiziano Sclavi, è l’arte più sublime: basta sfogliare Killer, numero storico di Dylan Dog, baciato dai meravigliosi disegni di Montanari e Grassani, che, partendo dallo spunto del Terminator di James Cameron, ne ribalta l’assunto, all’apparenza di desolante prevedibilità, con una svolta alchemica che trasporta i cyborg nella mitologia del Golem, la sci-fi nella religione. Pazzesco senza dubbio e originale anche nell’intreccio più spudoratamente derivato, lo stesso che capitava in quella meravigliosa età dell’oro del cinema indiano, dal 1966 al 2001, che ha conquistato fan di tutto il mondo con quell’alchimia magica tra suoni, musica e storie conosciute, stravolte ma adorabili.
Questo però non ha fermato l’industria di Bollywood che, in questi ultimi anni, ha cannibalizzato cult movie del pari de Il padrino, Harry Potter o Le iene, sempre con l’idea distorta di essere carta carbone musicale dei film originali con però la maglia della censura indiana che non permette baci tra gli attori, solo strusciamenti. Esemplare il caso di Mast con Aftab Shivdasani e Urmila Matondkar, flop clamoroso in India, che vorrebbe rifare Notting Hill ma senza effusioni romantiche tra i suoi protagonisti. Non sono più successi eclatanti questi rip-off, tanto che, proprio in questo periodo, si sono notevolmente assottigliati di numero, non solo causa Covid. Tra il 2021 e 2022, usciranno appena due titoli: Looop Lapeta, remake di Lola corre, pellicola del 1998 di Tom Tykwer con Franka Potente, già rifatto nel 2003 con Ek Din 24 Ghante di Rahul Bose, e l’atteso Laal Singh Chaddha di Advait Chandan ovverosia Forrest Gump in versione Bollywood. Stupido è chi lo stupido (ri)fà!

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