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La verità sull’Unione di Prodi, i dubbi su De Gregorio

La verità sull’Unione di Prodi, i dubbi su De Gregorio – Eidon

Commento Al di là della presunta compravendita di senatori, nel 2006 il centrosinistra a Palazzo Madama era comunque ostaggio dei berlusconiani

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 11 febbraio 2014

Nella XV legislatura Berlusconi ha davvero comprato i voti del senatore dipietrista De Gregorio? Al tribunale di Napoli l’ardua sentenza, anche se ancora una volta le regole sulla competenza territoriale rivelano una fantasia tutta italica, con i fatti accaduti presumibilmente a Roma, ma con la relativa notizia di reato afferrata per prima a Napoli. È stato l’unico caso o il nostro Cavaliere ci avrebbe provato, sempre presumibilmente, anche con Caforio, un altro senatore dipietrista? Sul punto non ci possiamo attendere nessuna sentenza, perché sembra che la prova fosse stata immortalata in una conversazione registrata da Caforio su un nastro, poi consegnato a Di Pietro che lo avrebbe sbadatamente smarrito.

È poi mai sindacabile il voto di un senatore, seppure comprato, dato che per l’art. 68 della nostra Costituzione i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni? De Gregorio dallo stesso tribunale è già stato chiamato a risponderne ed ha patteggiato la pena, sull’ovvio e logico presupposto che i padri costituenti non avrebbero mai potuto pensare di includere tra i voti «protetti» anche quelli comprati: la decenza ha dei limiti che nemmeno una Costituzione può varcare.

Del resto la propensione a tradire De Gregorio l’aveva manifestata proprio all’inizio della legislatura quando, con i voti del centrodestra, si era fatto eleggere alla presidenza della commissione difesa del senato, soppiantando Lidia Menapace del Prc, candidata della maggioranza la quale, il giorno prima di essere eletta, aveva proposto l’abolizione dei voli delle «frecce tricolori» nelle parate militari: apriti cielo, è il caso di dire, e così era scattata la motivazione «morale» per dare alle nostre forze armate un presidente di commissione patriotticamente più affidabile.

Quella legislatura era nata male, con una risicata maggioranza al senato alla quale erano stati subito sottratti il voto di Marini, eletto alla presidenza, e quindi per prassi mai espresso, e il voto di Napolitano eletto alla presidenza della Repubblica. C’erano poi altri «gruppi» interni poco solidi sul piano della affidabilità politica, composti dai tre di Mastella e i tre di Dini, poco propensi a non far valere, in quelle condizioni, il loro peso su ogni provvedimento. Mastella, potenza delle coalizioni e già allora delle larghe intese, andrà a fare il guardasigilli e Dini il presidente di una commissione, con l’implicita prospettiva, poi puntualmente messa in pratica, che i due avrebbero potuto dare da un momento all’altro la spallata decisiva al Governo Prodi: personaggi della «balena bianca», già berlusconiani per ideologia politica, che erano stati imbarcati nel centrosinistra a fini elettorali e, una volta eletti, non potevano che fare i berlusconiani e agire di conseguenza.

Anche sul fronte di Rifondazione comunista la maggioranza non era messa granché bene dato che, per riaffermare l’unità del partito, erano stati messi in lista tutti i componenti delle varie anime correntizie, alcuni dei quali non potevano proprio digerire quella selvaggia ammucchiata elettorale. Uno, Ferrando, era stato subito escluso dalle liste per dichiarazioni ritenute poco patriottiche ed elettoralmente dannose, mentre altri erano approdati in Parlamento e lì, anche in aula, non risparmiavano dichiarazioni di fuoco contro le politiche prodiane, pur votando a favore per disciplina di gruppo ma suscitando, ahimè, l’ilarità dell’opposizione. Era sopravvenuta poi la dissociazione di Turigliatto, sul merito e sul voto di alcuni provvedimenti, che aveva fatto traballare la maggioranza e sparso il panico nel partito il quale, dopo aver espulso inevitabilmente dal gruppo il reprobo, aveva pensato bene di organizzare una manifestazione pubblica di protesta «a favore» del governo, un atto che, però, dalla generalità degli osservatori era stato interpretato come una presa di distanza dalla maggioranza incapace di attuare politiche di sinistra. Alla fine era arrivata anche la battuta di Bertinotti su Prodi/Cardarelli come il maggior poeta morente, una spiritosaggine non molto apprezzata in quel clima da funerale incombente.
In questo contesto di confusione e instabilità – non dimentichiamo mai l’esiguità dei numeri in senato – non sembra peregrina l’ipotesi, tutta da verificare sul piano giudiziario, che il Cavaliere abbia potuto concepire l’idea di far passare dalla sua parte un senatore a suon di milioni, non essendo, tra l’altro, credibile che De Gregorio abbia cambiato sponda per nobili fini politici, né che poi per nobili fini abbia denunciato la compravendita: messo di lato dopo aver servito la causa, avrà pensato bene di rendere la pariglia al Cavaliere ingrato.

Si dice, e non a caso, che nella coda c’è il veleno e nel nostro caso i berlusconiani hanno trovato il veleno nell’ultimo atto parlamentare di questa vicenda, la decisione del presidente Grasso di costituire in giudizio il senato contro il Cavaliere. Non si vede onestamente come Grasso avrebbe potuto decidere diversamente dato che nel caso in specie tra i danneggiati c’è proprio il senato, leso nella sua onorabilità e nella correttezza del suo funzionamento. Sarà onorabile e corretto dare milioni di euro a un senatore per cambiare casacca? E poi sarà tutto vero? Al tribunale di Napoli l’ardua sentenza.

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