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La Vergine degli emarginati

La Vergine degli emarginatiMadonna dell'Arco a Napoli

Antropologia Per la prima volta dalla sua fondazione non si celebrerà quest'anno il rito della Madonna dell'Arco

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 4 aprile 2020

Chi è devoto/’e sta Maronna ’e ll’ Arco!/Sore’, ’a Maronna!
Col pellegrinaggio, il Lunedì in Albis, al Santuario della Madonna dell’Arco a Sant’Anastasia (Napoli) principia il ciclo primaverile dei rituali mariani. È il culto popolare più rilevante della Campania, sia per l’elevata partecipazione di devoti sia per l’aspetto collettivo ed emotivo, dove si manifesta una sacra e ‘violenta’ arcaica religiosità difficilmente controllabile dall’autorità ecclesiastica.

Considerati i mesi (marzo-aprile) in cui si svolge tale rito e i propri tratti peculiari, si può affermare che siamo innanzi a un composito rituale primaverile di origine precristiana affondante le radici nelle più remote culture mediterranee. Il rituale pellegrinaggio è contrassegnato da un’incessante corsa dei «fujenti» (il termine indica coloro che corrono) o «battenti», ossia i devoti della Madonna, e ha come meta il Santuario dove ogni anno si ripetono esasperate crisi di religiosità popolare. Le origini di tale culto, secondo fonti storiche, sono da collocare nella seconda metà del XV secolo.

Il culto della Madonna dell’Arco nasce intorno al 1450, proprio un lunedì di Pasqua, nel corso del quale alcuni giovani partecipanti a una festa del luogo – la contrada si denominava «dell’Arco» per la presenza nella zona di numerosi archi di un antico acquedotto romano – giocavano a pallamaglio (una specie di golf). Uno di loro fallì un colpo; accecato dalla rabbia, bestemmiò e scagliò la palla contro l’icona della Madonna che, colpita, cominciò a sanguinare. Il giovane fu impiccato e i devoti, intensamente scossi dall’accaduto, eressero una cappella per proteggere l’immagine.

A distanza di più di un secolo, esattamente nel 1589, il Lunedì in Albis fu il giorno in cui ebbe grande risonanza la tremenda punizione inflitta dalla Madonna ad Aurelia Del Prete che, avendo imprecato contro l’immagine, l’anno successivo si vide cadere i piedi, tuttora conservati ed esposti, quale significativa esortazione, all’interno del Museo degli Ex-voto. In seguito a ciò si provvide ad erigere un Santuario che dal 1594 è retto dai Padri Domenicani. La storia orale legata al culto della Madonna dell’Arco si apprende sia dai numerosi ex-voto esposti nel Santuario, attraverso i quali si possono leggere la sequela di mali fisici, psichici e sociali che da secoli affliggono le comunità di queste zone, sia dal comportamento rituale dei devoti, che appartengono agli strati popolari meno abbienti – dal sottoproletariato e proletariato urbano alla cultura rurale – di Napoli e delle provincie di quella che fu la Campania Felix.

I «fujenti» sono devoti all’icona dal volto ferito; forse è la più antica fra le Madonne che sanguinano. È proprio la ferita, infatti, simbolo di un dolore antico, all’origine di tale culto. Quella dei «fujenti» è una presenza molto forte e suggestiva. Identificabili dall’abito bianco da ‘iniziandi’ con fascia trasversale celeste e fascia rossa annodata in vita, percorrono a piedi il tragitto in segno di penitenza; per loro il pellegrinaggio è il climax di una ritualità che impegna molto più a lungo. Sono dotati, infatti, di una struttura capillare di organizzazione su base territoriale che inquadra gli aderenti in associazioni dedicate al culto della Madonna dell’Arco, ciascuna delle quali organizza una «paranza», vale a dire un gruppo che mesi addietro (spesso dopo le festività natalizie) mette ciclicamente in atto questue pubbliche con la tipica «voce d’a cerca», per l’appunto, canto di questua.

A Napoli e in provincia, la Domenica delle Palme, il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua, le associazioni svolgono le «funzioni»: atti devozionali codificati che le «paranze» compiono, accompagnate da bande musicali, presso le edicole della Madonna situate lungo la strada.

Il pellegrinaggio rappresenta il culmine del ciclo rituale, al quale i «fujenti», legati alla Madonna da un voto o da una grazia ricevuta, giungono dopo una lunga fase preparatoria, non che carichi di fatica e di attese. Sulla soglia del Santuario, i volti e i corpi si fanno più tesi. Il pellegrinaggio si trasforma in dramma collettivo; l’eccitazione piomba nei gesti di una ritualità millenaria. Dinanzi al quadro della Madonna molti «fujenti», vinti dalla tensione e dalla sofferenza, urlando e piangendo manifestano la loro devozione; altri evidenziano uno stato di contaminante entusiasmo che investe i campi della precarietà emotiva, del malessere inconscio, dell’isteria e, in taluni casi, della trance mistica, dell’invasamento e della possessione.

Questi episodi, lungi dal poter essere considerati semplici svenimenti, per le loro particolarità (irrigidimento del corpo preceduto da urla e pianto), fanno pensare a forme culturali di alterazione degli stati di coscienza. Ciò è da relazionare con le forme di tarantismo pugliese, perché in passato forme simili erano frequenti anche a Napoli e dintorni. Pertanto, la corsa ‒ eseguita con ‘phobos’ e ‘lyssa’, ossia paura e ira – assume sovente i ‘segni’ di una vera e propria danza e col «passaggio della soglia», ovvero lo spazio ritualizzato, principiano le crisi. Che sottolineano l’analogia delle movenze gestuali tra i «tarantolati» e i «fujenti»: corpo irrigidito, mascelle serrate, braccia gettate all’indietro, accompagnati spesso da atti autolesionistici.

All’esterno e lungo il viale che conduce al Santuario, giunge il battito ossessivo di suonatori, cantatori e danzatori che diffondono con espressioni facciali e somato-psichiche l’ostinata cadenza ritmica delle tammurriate. Tale rituale non s’è lasciato integrare, inglobare da normative ecclesiastiche o da strategie pseudo culturali, mosse dall’intento di piegarlo ai dettami del capitalismo e del consumismo. Mantiene una propria ortodossia che resiste all’imperante «omologazione culturale» che Pier Paolo Pasolini decenni prima aveva ben rimarcato.

Ecco perché l’autorità ecclesiastica ha sempre tentato di controllare, ostacolare e reprimere le forme più violente di tale rito. Secondo il Maestro Roberto De Simone (1933) «il problema è che questa celebrazione, per sua natura, sfugge alle regole dell’ufficialità. È l’espressione di gruppi sociali del sottoproletariato che attraverso momenti collettivi come questo celebra le proprie regole e le difende da qualsiasi tentativo di regolamentazione esterna. Il primo divieto di compiere il pellegrinaggio a piedi nudi, per esempio, risale al 1972 ma ancora oggi numerosissimi fedeli continuano a compiere il percorso senza scarpe».

La Struttura Festa, come ho potuto verificare sul campo in qualità di antropologo, ha subito delle mutazioni nel corso degli anni: agli autentici volti degli esecutori che marcavano il territorio con la loro identità cinesica e il loro linguaggio coreutico-musicale si sono commistionati individui di differente estrazione culturale – studenti, borghesi – che giungono spinti da diverse motivazioni, sia mediatiche sia di moda, ma non da concrete esigenze devozionali. Tuttavia, essa serba una misterica arcaica ritualità di corpo danzante, decodificata con una serie di condotte autonome operanti da tempo indefinito e condivise dalla collettività che in tal modo celebra il culto alla Madonna dell’Arco. Un rito collettivo catartico della classe subalterna per reprimere l’angoscia esistenziale che mette in atto – ora più che mai, in questo drammatico momento – riti simbolici e «magici» per controllare l’apocalisse e scongiurare ciò che Ernesto de Martino chiama «crisi della presenza».

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