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La vera essenza di Circe, dea che si scopre donna

La vera essenza di Circe, dea che si scopre donnaFranz von Stuck, Tilla Durieux nei panni di Circe, 1913, Vienna, Belvedere Museum

Madeline Miller «Per tutta la vita mi sono spinta avanti, adesso eccomi qui...». Dopo il romanzo su Achille, l’americana Madeline Miller riscrive l’ambigua maga del mito, già riabilitata al femminile da Webster e Atwood: Circe, per Sonzogno

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 10 marzo 2019

Tutto inizia e finisce con un fiore che rivela la vera essenza di chi lo tocca. Tra questi due estremi, alba e tramonto di una storia, il percorso in qualche modo onirico – se vita è sogno e noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni – che consente alla protagonista del secondo romanzo di Madeline Miller di affrancarsi dalla condanna dell’atemporalità divina, lei figlia di Elios e della ninfa Perseide, per concedersi alla danza della metamorfosi che implica non solo il ricorso alla magia, a cui lei è votata, ma anche il passaggio di status (di degradazione, a prima vista) da dea a donna: la scelta del corpo che patisce e invecchia ma nel segno di una libertà finalmente ritrovata e consapevole. Il giro di boa si compie attraverso maternità e volontà (e ne vedremo il collegamento) che permettono a essere e fare di coincidere, precipitando però nel gorgo del perituro.
Per declinare il paradigma dello sdoganamento di Circe (Sonzogno, traduzione di Marinella Magrì, pp. 416, euro 19,00) Miller si fa forte del percorso già avviato nel precedente La canzone di Achille, vincitore dell’Orange Prize for fiction 2012, dove la maternità aveva contorni sfuggenti connessi alla pazzia, nel caso della madre di Patroclo, o correlati alla divinità, aliena dal sentimento umano, nel caso di Teti. Miller sembra avere una predilezione per le figure dall’infanzia triste e desolata segnate dall’assenza materna, se anche in questo romanzo descrive Circe come un’esiliata prima ancora che lo diventi per decreto paterno. Esattamente come era successo a Patroclo, tenuto lontano dalla madre e disprezzato dal padre, e infine spedito a Ftia per essere allevato da Peleo. E ancora: questi personaggi mitici hanno in comune un’infanzia che difetta di astuzia e li induce alla confessione e all’immediato ostracismo. Di qui il riscatto attraverso le peripezie: silente e innamorato quello di Patroclo, di aperta ribellione quello di Circe, che sembra accomunarsi alle altre figure femminili descritte, anche se con esiti diversi, a partire dalla sorella Pasifae per giungere fino a Penelope.
È una ribellione a tutto tondo, quella di Circe, inserita nella tregua armata tra olimpi e titani, una lotta per svicolarsi dallo strapotere del padre, simbolo del cielo e del divino, e reintegrare – in maniera funzionale a differenza di Pasifae – la figura materna, legata invece all’universo oceanico.
Durante il suo esilio Circe prova la distanza che separa la sua natura da quella degli dèi, abituati a ricevere senza dare. Le caratteristiche di pharmakis, maga, sembrano calzarle perfettamente – il lavoro duro che deve plasmare, fallire, ritentare, grazie alla volontà inflessibile – come sembrano adattarsi al ruolo di madre che alleva un figlio nell’oscurità del compito che denuncia ogni suo minimo difetto: «Era volontà, ora dopo ora, forza di volontà. Simile a un incantesimo, in fondo, un incantesimo che però dovevo lanciare su me stessa. Lui era come un grande fiume straripante, e io dovevo avere pronti in ogni momento dei canali che drenassero in modo sicuro la sua piena», quella del figlio Telegono, avuto da Odisseo e allevato da sola.
Miller riscrive una sua versione della storia, quella tramandata dai mitografi ma con ampi margini di invenzione, data l’esiguità e la contraddittorietà delle fonti: Telegono uccide il padre e porta Penelepe e Telemaco a Eea; Circe si unisce con quest’ultimo e, acquietata, scopre di preferirsi donna, non più dea. Se all’inizio, grazie a un fiore, la giovane e gelosa Circe trasforma la ninfa Scilla nel mostro divoratore di marinai che presidia lo stretto messinese, nel finale usa quello stesso fiore per calarsi pienamente nel tempo dei mortali, abdicando alla sua divinità già tanto traballante da tradirla anche nella voce – simile a quella umana, le dice Ermes – e nella pietas che riserva agli uomini (e a Prometeo, che quegli uomini aveva aiutato).
Segno distintivo di Circe è dunque la voce – Circe, sparviera –, la voce umana che la madre deride e che è in grado di pronunciare incantesimi, maledizioni e benedizioni: la stessa ambiguità connessa con il termine pharmakon. Donna e maga è Circe, e dunque strega pericolosa, secondo la visione che se ne ebbe nei secoli. Dalla meretrix oraziana a Joyce, dalle interpretazioni allegoriche e dantesche alla femme fatale dipinta da Waterhouse o poetata da D’Annunzio, alla lettura di Pavese (Dialoghi con Leucò) che finalmente le dà la parola. Si assiste infine alla sua riabilitazione attraverso lo sguardo al femminile di Augusta Webster e Margaret Atwood. Una Circe, quella di Atwood (Circe/Mud), che sa immaginare una storia/isola alternativa, quella su cui la conduce l’estro di Madeline Miller che le fa dire: «Per tutta la vita mi sono spinta avanti, e adesso eccomi qui. Di un mortale ho la voce, che io abbia tutto il resto».

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