Cultura

La vera bufala delle fake news

La vera bufala delle fake news

Codici aperti Si moltiplicano gli studi per comprendere quali fattori influenzino le opinioni politiche. Secondo alcune ricerche scientifiche, però, le echo chambers sarebbero sovrastimate

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 25 febbraio 2018

A giudicare dalle pubblicazioni scientifiche, si direbbe che anche il mondo della ricerca risenta del clima elettorale italiano: cresce di settimana in settimana il numero di studi su come le nostre opinioni politiche si formano e si diffondono nella società, e su cosa le influenzi. In realtà, le elezioni di quaggiù c’entrano poco o nulla e si tratta in primo luogo di una conseguenza della digitalizzazione del dibattito politico.

ABBANDONATE PIAZZE, giornali e talk show, la dialettica si è trasferita soprattutto sui social network e sul web con gran soddisfazione dei sociologi con il pallino dell’informatica. Il World Wide Web, Facebook, Twitter e compagnia, infatti, rappresentano una fonte di dati che fa impallidire gli strumenti della sociologia tradizionale, basata su interviste e questionari.
Basta un po’ di pratica con il coding e si possono ricavare in pochi minuti informazioni in tempo reale sulle discussioni virtuali in corso. Chi di noi presta poca attenzione alla privacy, infatti, permette a tutti di osservare l’attività che teniamo sui social networks: di quali temi ci piace discutere, a chi diamo i nostri «like» e chi a sua volta dà credito a noi. Informazioni preziosissime per i pubblicitari che così possono ottimizzare le loro campagne, ma è una manna anche per i ricercatori che possono mettere a punto modelli sociali, verificare e smentire ipotesi, fare previsioni su come si spostano le nostre opinioni.
In questo campo di battaglia si incrociano sociologi, ma anche statistici, informatici e neuroscienziati, matematici e fisici. Tutti sotto la benevola egida di Mark Zuckerberg e colleghi, i veri padroni del giocattolo. Sono solo a decidere su quali e quanti dati lasciare a disposizione dei curiosi e quanto le piattaforme siano neutrali rispetto alle azioni e alle opinioni degli utenti. Gli scienziati accettano le condizioni: piuttosto che tornare ai questionari, meglio accontentarsi delle briciole di Zuck.
Anche in questa comunità scientifica, le parole più alla moda sono «fake news» (cioè le bufale) e le «echo chambers» o «bolle di filtraggio», quelle comunità telematiche di utenti affini che scambiano informazioni solo per darsi ragione a vicenda. Non giratevi, parlano (anche) di noi.

UNA DELLE QUESTIONI che più agita i net-ricercatori riguarda proprio l’impatto politico di fake news e echo chambers nell’epoca della Brexit, di Trump e dei vari populismi europei. Nascono prima le bufale su Hillary Clinton o Donald Trump? In altri termini, ci si chiede se l’ascesa dei populismi sia una causa o una conseguenza della diffusione delle balle virtuali. Non è una domanda oziosa: a leggere le inchieste giudiziarie e giornalistiche, sembrerebbe che i destini di un Paese possano essere decisi da squadriglie di utenti e bot impegnati 24/7 a screditare avversari politici e a manipolare sistemi elettorali, contro cui scatenare orde di algoritmi a difesa del politicamente corretto. Ma davvero il successo di Trump & Co. dipende da Facebook?
L’ipotesi sembra smentita da una ricerca appena pubblicata sulla rivista Information, Communication and Society da parte di Elizabeth Dubois (università di Ottawa, Canada) e Grant Blank (Oxford Internet Institute). Si tratta di una «ricerca vecchio stampo», visto che i loro dati sono tratti dalle risposte di ben 14mila utenti da sette Paesi diversi a un questionario, seppur telematico. E chissà che i risultati contro-corrente non derivino proprio dal metodo di ricerca.

SECONDO L’ANALISI dei due ricercatori, il problema delle «bolle» è largamente sovrastimato. È vero che gli utenti si influenzano a vicenda e che i social sono frammentati in circoli autoreferenziali. Ma per capire quanto contino le echo chambers, concentrarsi su un solo mezzo di comunicazione può essere fuorviante. Basti pensare che gli utenti sotto i 34 anni dichiarano di utilizzare in media cinque social network diversi.

I CITTADINI PIÙ INTERESSATI alla politica, che sono i più influenti, sono anche quelli più «onnivori». Dubois e Grant usano un’espressione più diretta, «drogati politici», per indicare la dipendenza dalle informazioni degli utenti politicamente più impegnati. Questi accedono alle informazioni da diverse fonti e in questo modo sfuggono alle echo chambers. All’altro estremo, solo l’8% dei partecipanti alla ricerca ha dichiarato di utilizzare una sola fonte di informazione. In conclusione: le «bolle» esistono ma hanno un impatto limitato, perché gli utenti che influenzano di più le opinioni politiche sono quelli che se ne sottraggono meglio.
Anche secondo un’altra ricerca del neuroscienziato Jay Van Bavel (New York University) e della psicologa Andrea Pereira (università di Leida), la diffusione delle bufale segue, e non precede, l’identità politica. Nell’ultimo numero di Trends in cognitive sciences, i due pubblicano un’estesa rassegna sulla ricerca di neuroscienziati, psicologi, sociologi e filosofi intorno ai motivi per cui tendiamo a credere alle fake news. In sintesi, prendiamo per buone informazioni inaffidabili perché l’identità derivante dall’appartenenza politica prevale sul desiderio di verità. Succede anche a chi, normalmente, dimostra capacità di analisi superiori alla media. Quando, ad esempio, in un problema matematico si aggiunge una connotazione politica, le competenze logiche vengono meno: se la soluzione esatta contraddice il nostro credo politico il nostro cervello è prontissimo a scegliere una soluzione alternativa, anche se errata.
Per ribaltare il meccanismo, sostiene Van Bavel, si può aumentare l’incentivo a preferire l’accuratezza al bisogno di identità. Ad esempio, dando un valore economico alla verità. «Se state litigando – spiega – chiedete al vostro avversario: ‘vuoi scommettere?’. Quando ci sono 20 dollari in ballo, nessuno vuole essere smentito». Può funzionare. Allo stesso modo, se volete convincere qualcuno non insultatelo, perché questo rafforzerà il suo bisogno di identità.
PROPRIO ALL’EVOLUZIONE della politica americana nella transizione tra Obama e Trump è dedicata una terza ricerca pubblicata a febbraio sulla rivista Race and social problems da Luigi Leone e Fabio Presaghi, due psicologi della Sapienza di Roma. I ricercatori hanno analizzato i dati dell’American National Election Studies del 2012, un’indagine dettagliata basata su circa 6000 interviste di elettori. Leone e Presaghi hanno cercato una relazione tra lo sdoganamento del discorso razzista nel dibattito pubblico americano e la parabola del Tea Party, il movimento conservatore che si colloca alla destra del Partito Repubblicano su posizioni ultraliberiste.
L’ascesa di Trump ha coinciso con il declino del Tea Party, da cui proveniva il principale antagonista repubblicano di Trump, Ted Cruz. Ma tra le due destre americane, in fondo così simili, c’è davvero contrapposizione? Secondo le analisi statistiche di Leone e Presaghi, più che opporsi a Trump il Tea Party gli ha aperto la strada spostando l’elettore repubblicano su posizioni estremiste. L’elezione di Trump, dunque, non è affatto il risultato di un golpe, ma una naturale evoluzione di una tendenza profonda ma reale nella società americana.
Anche senza menzionare bufale ed echo chambers, Leone e Presaghi giungono a conclusioni in linea con le altre ricerche citate. Le bufale digitali non sono la spiegazione dell’ascesa del populismo, al limite un sintomo di dinamiche politiche terribilmente analogiche contro cui gli algoritmi non basteranno.

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