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La vendetta della responsabilità. Il Pd teme di dover dire sì al Colle

La vendetta della responsabilità. Il Pd teme di dover dire sì al ColleIl senatore Matteo Renzi – LaPresse

Democrack Renzi fa sapere di escludere qualsiasi trattativa. E Orfini: «Not in my name». Fassino: Se venerdì dovesse saltare l’accordo fra centrodestra e grillini si apre una nuova fase, e quando si apre una fase nuova si discute. L’ex leader tentato dal dialogo con i grillini. Per far saltare il banco. O dire sì a un premier di alto profilo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 aprile 2018

Il più tranchant è, come spesso gli accade, Matteo Orfini. Posta su twitter l’esilarante scena di «Un sacco bello» in cui Carlo Verdone-Enzo cerca compagnia per andare a fare un tour del sesso in Polonia, «siccome me s’è libberato un posto in macchina» «volevo sape’ da tu fratello se glie’ interessava…». Il suo commento: «A proposito di politica dei due forni, il vero modello di Di Maio». A parlare sul serio con il presidente Pd di «forni» o anche solo di ipotesi di un qualche governo con M5S la risposta non è meno tranchant: «Not in my name».

EPPURE ORMAI le voci di un imminente discesa dall’Aventino circolano con insistenza. E non vengono dalle minoranze che hanno sempre predicato il dialogo con i 5stelle. Vengono dallo stretto giro renziano. Quello stesso giro di fedelissimi che aveva trattato con freddezza le «aperture» del reggente Martina: «sbagliate» ma solo perché «intempestive».

PRIMA, È IL RAGIONAMENTO, bisogna aspettare che il «tentativo» della presidente Casellati vada a sbattere, dimostrando che il governo destra-M5S non esiste. Poi toccherà al presidente Fico tastare il polso di una maggioranza alternativa: quella 5stelle e Pd. A quel punto il Pd potrebbe mettere le sue condizioni, per esempio condizionare un appoggio a un premier diverso da Di Maio. Se anche questo tentativo non andasse in buca, a questo punto il Colle potrebbe prendere un’iniziativa di un premier di alto profilo a cui né i 5stelle né il Pd potrebbe dire di no.

A CASA DEM, anche solo l’ipotesi fa innervosire gli ultrà renziani, sballottati dai boatos. Fin qui hanno dato per cosa fatta l’accordo Lega-M5S. «5stelle e Lega sono la stessa cosa: l’opposto della sinistra» è il titolo dell’ultimo editoriale di Orfini su Leftwing, il periodico dei Giovani turchi. Ufficialmente la posizione resta quella: «La linea non cambia», spiega il capogruppo Delrio all’assemblea dei parlamentari. E l’ex segretario fa sapere: «Il governo Pd -5 stelle per Renzi non esiste. Non ci sono scongelamenti, avvicinamenti, ipotesi o trattative».

MA ALLORA LE VOCI sullo «scomgelamento» dove nascono? C’è chi ipotizza che il Pd potrebbe prestarsi al gioco di «vedere le carte» dei grillini per mettere condizioni irricevibili: passo indietro di Di Maio e non toccare jobs act, scuola e tutta la stagione delle riforme vantate da Renzi.

Ma è un ragionamento complicato, difficile da raccontare. È vero che da giorni alcuni dirigenti dem predicano l’uscita dall’isolamento: «Se M5S e centrodestra non trovano accordo si esploreranno altre opzioni», spiega Fassino, «si apre una nuova fase, quindi si discute».

DI UN ACCORDO CON I 5 STELLE, anche sotto le mentite spoglie di un governo di alto profilo che guarda a sinistra? Le cronache di ieri segnalano a Roma un seminario su «Popolocrazia», l’ultimo libro del sociologo Ilvo Diamanti, con un prestigioso parterre di costituzionalisti e gli interventi di Walter Veltroni e Sabino Cassese. Quest’ultimo «papabile» per un ruolo nel vagheggiato governo. E maestro di Giacinto Della Cananea, coordinatore del Comitato scientifico per l’analisi dei programmi voluto da Di Maio per stilare il famoso «contratto» in due versioni: modello M5s-Lega e modello M5S-Pd. Indizi, coincidenze, che compongono un castello di carte. Che però non sta in piedi.

PRESUPPONE, per esempio, un ritrovato ruolo di Renzi «in chiaro» e non solo da segretario-ombra che però governa sul serio. E che tutto il gruppo dirigente renziano si rimangi anni di insulti alla Casaleggio Associati. Per non parlare degli ultimi cinquanta giorni passati a sostenere che «gli elettori ci hanno messo all’opposizione» e che il Pd «è antagonista della demagogia». In serata Ettore Rosato ancora giura: «Noi siamo alternativi a questo M5s e a questa Lega».

NESSUNO NEL PD lo dice apertamente, ma la colpa sarebbe tutta del presidente Mattarella: attribuendo alla presidente Casellati un «mandato stretto» per verificare la possibilità di maggioranza destre-grillini stelle, avrebbe – è la tesi – derubricato la possibile rottura del centrodestra. E così sul Pd, che aveva pregustato di godersi dal divano dell’opposizione il film dell’alleanza fra «i due partiti populisti», la pressione è diventata insostenibile. Quella del Colle. Degli editorialisti di tutto il mondo uniti. E da ultimo, ma non ultima, quella dei propri parlamentari: mai entusiasti di tornare al voto anzitempo

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