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La valigia messicana di Gerda

La valigia messicana di Gerda

Fumetti Sara Vivan racconta la fotografa Gerda Taro che firmava con Robet Capa e scomparve durante la guerra civile spagnola

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 29 giugno 2019

Sara Vivan ha alle spalle lavori di illustrazione e il suo primo romanzo a fumetti Gerda Taro, pubblicato da Contrasto books-la costola editoriale della nota agenzia fotografica, che narra la vita di Gerda Pohorylle, la fotoreporter tedesca compagna del ben più noto Robert Capa. Dopo i fumetti dedicati alle foto di guerra di Henri Cartier- Bresson e dello stesso Capa, dati alle stampe dal marchio un paio di anni fa, questo terzo titolo di ispirazione potremmo dire bio-fotografica vanta, oltre alle chine della giovane autrice, la firma di un curatore d’eccezione, il noto fumettista Vincenzo Filosa, e quella di Rosa Carnevale, incaricata della bella postfazione.

«I libri su Bresson e Capa che menzioni erano stati tradotti dal francese- mi spiega Sara Vivan. La recente attenzione a Gerda, alle sue fotografe dimenticate, hanno fatto pensare a un fumetto dedicato alla sua vicenda: anche il bel romanzo di Helena Janecek vincitore del Premio Strega e prima ancora l’uscita del documentario “La maleta mexicana” avevano avvicinato il pubblico a questa figura femminile incredibile, di cui il ricordo rischiava di venire inghiottito nell’ombra del suo più famoso compagno, Robert Capa.…»

Su quali materiali hai lavorato?

Il personaggio è veramente ben descritto nella biografia di Irme Schaber, pubblicata da Derive e Approdi, un testo molto ricco. Mi è piaciuto molto e mi è stato molto utile nella ricostruzione della personalità di Gerda, ma non ci sono, né lì, né altrove, scritti diretti né corrispondenze, solo testimonianze di personaggi che l’hanno conosciuta e “vissuta”da vicino.

Ho utilizzato quindi un percorso visivo, attraverso i ritratti ritrovati nella “maleta mexicana”, la valigia contenente tra 3000 e 4000 fotografie che Csiki- l’aiutante di Capa- riuscì a portar via da Parigi, e che andate perse, vennero ritrovate negli anni ’90 in Messico.

È la maleta infatti che apre e chiude la tua storia…

Esatto. Mi sembrava importante iniziare con una prolessi proprio per questo. Molte delle sequenze a fumetti contengono immagini ritrovate tra quelle della maleta e il libro si conclude con una sequenza dalla mostra dedicata che venne allestita a New York, all’International Center of Photography nel 2011.

Perché è così importante il suo contenuto?

Tra quegli scatti ritrovati 40 anni dopo la morte di Capa, c’erano i ritratti che lui e Fred Stein avevano fatto a Gerda tra il 1935 e la sua morte. Ho dovuto sintetizzare molto, ma ovviamente ho scelto di raccontare e rappresentare i momenti dei quali esistevano foto simboliche e di scandire la narrazione secondo gli spostamenti di Gerda e quindi di ambientare la storia prima a Parigi e poi di seguire i movimenti della protagonista sui fronti della Guerra Civil spagnola. Mi sono state d’aiuto le foto di tutti i loro colleghi e amici, quelle che ritraevano Gerda e Robert insieme, più personali, ma essenziali per il mio piccolo libro.

La giovane vita di Gerda è infatti attraversata da numerosissimi incontri.

Mi è sembrata molto bella la vicenda del gruppo di fotografi che si era creato a Parigi: giovani rifugiati che si reinventavano fotografi e giornalisti, spesso corrispondenti per il loro paese d’origine, ai quali sarebbe stato impossibile svolgere qualsiasi altro lavoro in Francia. La fotografia-come nota giustamente Rosa Carnevale nella postfazione-diviene un mezzo di sopravvivenza intellettuale, materiale e artistica.

Parliamo delle scelte grafiche: questo tratto un po’ scarico e la vignettatura stondata hanno un effetto vintage…

La forma della vignetta stondata è in effetti simile ai buchi delle pellicole del tempo. Ho disegnato a china su carta molto porosa, usando una tecnica simile a quella che si usa nella calligrafia giapponese; la carta si impregna molto e il tratto ha l’aspetto di una matita, ricorda un vecchio giornale o una vecchia stampa, come a riprodurre la patina del tempo.

La Taro è la tra le primissime fotoreporter, la prima a essere morta su un fronte di guerra, ma è stata anche la creatrice del marchio Capa…ricordiamo che Robert Capa si chiamava in realtà André Friedmann. Quindi una donna molto, molto moderna.

Gerda era ebrea, e già negli anni ’20 in Germania aveva dovuto nascondere la sua identità, per continuare a frequentare gli ambienti borghesi. Poi passò dall’esperienza politica, ma in ogni caso inventarsi un’altra identità per vivere e sopravvivere non era cosa nuova per lei. È riuscita a far convivere tutto e tutti con grande libertà, senza mai venir meno, per esempio alla sua grande femminilità. Una donna consapevole del suo fascino-rivendicava il diritto di indossare i tacchi anche sul campo- era caparbia e molto presente a sé stessa, fino in fondo.

Il rapporto intenso della coppia di fotografi palpita nel libro attraverso sequenze mute…

Tra loro c’era una grande confidenza, di sguardi e di complicità, che non aveva bisogno di parole. Ci sono le foto bellissime di Capa che ritraggono l’amante appena sveglia o mentre si veste scherzosa di fronte all’obiettivo-sebbene quelli fossero anni di grande miseria per entrambi- ed esistono testimonianze del fatto che Capa le avesse chiesto di sposarlo. Era una grande alleanza che sorpassava le distanze di estrazione sociale e le differenze di carattere: un sodalizio professionale e sentimentale tra una donna molto affascinante, sagace e libera e un uomo innamorato e sognante.

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