La vagabonda d’America
Festival Le Giornate del Cinema Muto offrono rare meraviglie, insieme alla capacità di uno sguardo sempre nuovo sui capolavori.
Festival Le Giornate del Cinema Muto offrono rare meraviglie, insieme alla capacità di uno sguardo sempre nuovo sui capolavori.
In attesa del massimo evento wellesiano, le Giornate del Cinema Muto hanno già offerto alcune meraviglie, al di là del livello generalmente molto interessante dei programmi (ma sulla rassegna svedese o su quella ucraina sarà meglio soffermarsi a conclusione). Parliamo però di almeno tre proiezioni che segnano la scoperta di film fondamentali, ben inseriti nelle rassegne di quest’edizione ma da riscoprire anche singolarmente. Dopotutto il livello vero di un festival si gioca proprio su questa capacità di intercettare capolavori come se si trattasse della loro prima proiezione rivelatrice.
Il primo dei tre capolavori era stato addirittura già proiettato in una precedente edizione del festival ma senza la dovuta attenzione. Si tratta di Beggars of Life (1928) di William Wellman, su cui la sezione del Canone ritrovato curata da Paolo Cherchi Usai ha giocato una carta che ha dimostrato come un festival non debba spaventarsi di riproporre un film se questo può trovare un nuovo pubblico o più semplicemente un nuovo sguardo.
Il film, interpretato da una Louise Brooks alla vigilia dei suoi grandi film europei di Pabst e Genina, ci fa capire come la sua presenza in immagine potesse essere sconvolgente per degli sguardi europei. In una storia in cui viaggia da vagabonda attraverso un paesaggio americano davvero inedito, per sfuggire alla cattura della polizia perché ha ucciso l’uomo che voleva violentarla, veniamo immessi in un film in cui si perde quella certezza del paesaggio americano, fatta di frontiere e comunità da «americana»: un paesaggio senza sicurezze, in cui l’unica moralità può scoprirsi nei vagabondi, non in quelli che perseguono un crimine senza capirne nemmeno la meccanica. E la storia d’amore che ne nasce con il partner di fuga, Richard Arlen, arriva nel finale al dubbio che il vilain Wallace Beery, sorpreso dall’amore che gli appare sotto gli occhi, l’amasse ancora di più, e la conclusione della storia di questa coppia diventa una futile scena di gelosia verso un morto.
La resa all’apparire di una coppia in amore rende il film più sorprendente di un Lang, regista che Wellman riesce a anticipare ed eccedere anche nella sequenza di un tribunale di vagabondi, che manifestamente precorre M, quanto la vicenda della fuga apare come un preludio di Sono innocente.
Wellman si conferma grande tra i grandi: in altri film, lo sappiamo, è capace di eccedere anche Bresson. Un film, quello visto a Pordenone, profondamente americano e allo stesso tempo capace di ispirare il miglior cinema europeo di quegli anni, come la vicenda successiva di Louise Brooks rivelerà. Qui lei veste da uomo e da donna (e uno dei vagabondi riconosce che è donna letteralmente dalla cavità del suo fondoschiena, rendendo il film tra i più hard mai visti), si offre con un corpo ferito e claudicante, ha uno sguardo che pur giungendo all’amore corre anche più lontano, nel fuori campo.
Raramente a Pordenone abbiamo anche visto una proiezione con un accompagnamento musicale così giusto e affascinante: bisogna andare nel ricordo a quella con cui Neil Brand accompagnò The Big Parade per trovare qualcosa di altrettanto sensibile quanto l’accompagnamento qui udito di Gunter Buchwald, ormai massimo musicista delle Giornate.
Il secondo capolavoro assoluto è stato uno dei titoli «educativi», o di propaganda georgiani, Dili sati stuti (Dieci minuti al mattino). Aleqsandre Jaliashvili (di cui apprendiamo che lavorerà con Kalatozov e Medvedkin prima di essere emarginato) realizza nel 1931 un film che, esaltando la ginnastica con le parole di Lenin, porta a chiederci se Makavejev l’avesse visto prima di realizzare Verginità indifesa. Come e più che in Makavejev, questo film georgiano travolge l’ideologia in presenza di corpi, maschili e femminili (stupenda l’attrice di cui forse non conosceremo mai un nome!).
Terzo capolavoro, restaurato dall’archivio viennese con materiali ritrovati a Trieste, è il documentario anonimo sulla visita a Trieste dell’imperatore Carlo I. L’anno prima della fine della guerra, questo viaggio apolide nella Trieste «occupata», con l’imperatore che visita truppe, guarda da canocchiali verso paesaggi invisibili, offre rassicurazione senza visibilmente viverla, è una delle immagini più vere e rivelatrici della «Finis Austriae». Alla vigilia dell’anno di celebrazioni nell’anniversario dell’inizio della prima guerra, questo film che un collezionista triestino aveva conservato, si dimostra un ritrovamento fondamentale per come il cinema riesce a rivelare la verità oltre i miti, nazionali o imperiali.
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