Cultura

La tunica che placa l’ansia del divino

La tunica che placa l’ansia del divinoFoto di Sebastiana Papa

Mostre «Di vari credi. Il mondo monastico femminile nelle fotografie di Sebastiana Papa», al Museo di Roma in Trastevere, fino al 4 settembre

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 12 luglio 2016

A Gerusalemme, nel vestibolo della Basilica del Santo Sepolcro, lo sguardo della monaca rumena ortodossa, illuminato dal lieve bagliore delle candele in primo piano, è rinchiuso nell’ovale del suo volto. Tutt’intorno il buio fitto ingloba la tonaca, di cui s’intuisce la forma. Nel momento di raccoglimento che precede (o forse segue) la preghiera, la giovane donna registra la presenza della macchina fotografica di Sebastiana Papa (Teramo 1932-Roma 2002). Così come due anni dopo – nel gennaio 1998 – l’adolescente dai capelli rasati, nel monastero tibetano buddista Geden Choeling, residenza del Dalai Lama in India, quando si volta verso di lei. Eppure non si tratta di interferenze rumorose, piuttosto di un dialogo silente tra chi sta davanti all’obiettivo e chi sta dietro, come appare evidente nelle immagini scattate dalla fotografa in giro per il mondo ed esposte in occasione della mostra Di vari credi. Il mondo monastico femminile nelle fotografie di Sebastiana Papa (a cura di Maria Lucia Cavallo e Massimo Cutrupi) al Museo di Roma in Trastevere (fino al 4 settembre), location significativa trattandosi dell’ex convento seicentesco di Sant’Egidio che ospitò le Carmelitane Scalze fino all’Unità d’Italia.

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Dall’Etiopia alla Birmania, dall’Italia all’Egitto, Grecia, Estonia, Cina, Giappone, proseguendo una ricerca sulle comunità, da sempre al centro dell’interesse di Papa – rintracciabile, in particolare, nei suoi libri Orgosolo (2000) e Nonantola. L’anima di una comunità del modenese (2001) – l’autrice mette a fuoco la vita comunitaria monastica nella sua organizzazione del quotidiano. Ma il suo sguardo è laico – preme subito sottolineare – trattandosi di una delle iniziative per il Giubileo straordinario, ideata e prodotta dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione che conserva l’intero archivio di Sebastiana Papa, acquisito nel 2006 per donazione dei fratelli: settemila pellicole negative, circa novemila stampe positive (inclusi provini), due apparecchi fotografici Leica M3 e altri materiali tra libri, carte e documenti.

La maggior parte delle immagini – stampate per l’occasione su carta baritata ai sali d’argento – è una selezione delle trecentocinquanta pubblicate nel volume Le Repubbliche delle Donne. Monachesimo femminile nel mondo, 1967-1999 (Iccd/Postcart 2013), mentre i vintage sono esposti parallelamente nella mostra al Castello d’Albertis – Museo delle culture del mondo di Genova (15 luglio-25 settembre).
«Ci vuole un occhio acuto per vedere quel che si nasconde dietro le porte chiuse dei conventi – scrivono Ella Baffoni e Katrin Tenenbaum, ripercorrendo i ricordi che uniscono i loro rispettivi percorsi personali e professionali con la fotografa – Ci vuole una tenacia e una curiosità forte per dischiuderle, quelle porte. Per saper indagare le ragioni di una scelta, l’ansia di divino, l’inquieta ricerca di sé e della pace interiore, la riconciliazione con la vita e la natura attraverso la vita quotidiana, in una sorta di antropologia comparata dei monasteri del mondo».

Lasciandosi virtualmente guidare da queste parole, ci si sofferma sulle fotografie della mostra, la cui scelta, come del resto l’impostazione del libro rimasto incompiuto dalla sua improvvisa scomparsa, rispetta le indicazioni dell’autrice. Come spiega Maria Lucia Cavallo, responsabile del Museo di Fotografia Storica presso l’Iccd, Papa aveva lavorato con estrema attenzione ad ogni dettaglio: il menabò, i contenuti (fotografie, testi, didascalie), perfino il font per il titolo. Anche la foto di copertina che mostra una monaca dietro alla campana nel Monastero russo ortodosso Pühtitsa a Kuremâe, Estonia (1996), era stata ritagliata a mano da lei e incollata sul supporto cartaceo per verificarne l’impatto visivo, ipotizzando come possibili colori il verde pisello, l’azzurro e il magenta.

FP 176-10 001
FP 176-10 001

«Le tonache, le bende, i frontini, gli scapolari, i veli monastici e in un certo modo perfino le tonsure delle buddiste nascondono le donne, le sottraggono alla realtà esterna creando protezione e silenzio intorno ai corpi che diventano come tende di Abramo dove l’Arca trova il suo metaforico spazio e dove i visi assumono un carico maggiore di energie che li trasforma in palcoscenico dei pensieri su cui si accentuano le intensità delle espressioni», scrive Sebastiana Papa.

Quelle espressioni catturate in momenti e situazioni così diverse, dallo svago mentre si gioca a palla nel monastero delle Benedettine di Santa Maria Rosano a Pontassieve nell’aprile 1967 (primo suo reportage sulla fotografia monastica), al lavoro nei campi o all’interno delle mura antiche, come quella bellissima immagine alla Vermeer con la suora che riempie con l’imbuto il fiasco del vino nel monastero di Santa Chiara a Cortona (1994). C’è anche lo studio dei testi sacri nel monastero del Getzemani a Sebeta in Etiopia (1999) o nel Tempio delle Nuvole Bianche a Pechino (1995), come pure nel monastero del Monte Carmelo a Vetralla (1995) e poi la preghiera, la vestizione, il canto…

Una visione corale, quindi, in cui il ritmo narrativo non è mai didascalico. La fotografa, come nella quasi totalità della sua opera (fa eccezione il servizio sulle case di prostituzione in India) affida anche questo suo lavoro, che si è sviluppato in un così ampio raggio temporale, alla pellicola in bianco e nero, lasciandone emergere il vigore espressivo anche nell’uso, talvolta, dei forti contrasti di chiaro-scuro e in certi controluce. Quanto ai ritratti Massimo Cutrupi, che si è occupato della stampa delle fotografie, azzarda un possibile fattore «timidezza» che, oltre al naturale rispetto per gli individui, portava Papa a non invadere mai lo spazio dei suoi soggetti, inquadrandoli a debita distanza – quasi sempre in sequenza – per poi intervenire in post produzione, isolando singole figure e recuperandone le espressioni. Un modo, certamente, per avvicinarsi in punta di piedi.

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