La trappola dell’etnicità: gabbia e risorsa
Antropologia Nell’assenza di politiche nazionali per l’inclusione sociale spicca il contributo di gruppi autorganizzati
Antropologia Nell’assenza di politiche nazionali per l’inclusione sociale spicca il contributo di gruppi autorganizzati
L’integrazione di gruppi migranti provenienti da nazioni diverse è uno dei banchi di prova delle capacità inclusive delle democrazie occidentali. La metodologia prevalente di approccio al fenomeno, anche a livello internazionale, è quella interculturale, orientata al rispetto e alla valorizzazione delle differenze. Questa visione tuttavia non è esente da problemi, perché talvolta i set valoriali a confronto sono così diversi da rendere impossibile una sintesi delle diverse prospettive. Un caso molto interessante per riflettere sui temi dell’intercultura e delle relazioni etniche è quello rappresentato dalle politiche dirette nei confronti del gruppo Rom.
La questione dell’inclusione Rom è da tempo oggetto di interesse da parte delle istituzioni europee e nazionali. L’UE nell’ultimo decennio ha prodotto ed investito molto su questo gruppo, in termini politici e di risorse. Questo impegno ha prodotto atti legislativi, strumenti finanziari e di raccordo delle politiche, ma il problema dell’inclusione socioeconomica dei rom svantaggiati è rimasto ancora irrisolto. Le stime per l’Italia parlano di 120.000 – 150.000 persone, di cui solo un terzo residenti nei campi. Tuttavia per un gruppo così esiguo si sente il bisogno di produrre una Strategia Nazionale. Perché? Quali sono gli ostacoli che impediscono una piena integrazione? Un complesso di cause concorrenti e di fattori esogeni ed endogeni si sono combinati rafforzandosi a vicenda e cristallizzando la situazione attuale.
I Rom sono riusciti a mantenere inalterata la propria struttura sociale e le proprie pratiche economiche, aiutati in questo da una segregazione abitativa che è al tempo stesso imposta (il sistema dei campi è stato creato con leggi regionali per fini di tutela dello stile di vita nomade) e autoimposta (la residenza al campo non è coattiva). Le attività praticate, come la raccolta e vendita di metalli e oggetti usati, si svolgono su base familiare, ma queste occupazioni, per la loro irregolarità e per la loro tipologia, sono insufficienti ai fini di una vera inclusione.
L’accesso ad un reddito continuativo e a lavori diversi da quelli informali, consentirebbe di progettare altri futuri possibili, ma se ciò accadesse verrebbe meno la presa della tradizione e muterebbero per sempre i rapporti di potere interni al gruppo. Perché la tradizione si preservi è necessario anzitutto controllare i riproduttori.
L’antropologia europea e del Mediterraneo parlava di honour and shame system per definire un sistema di regole sociali rintracciabile in un’area ampia che si estende dall’India al Maghreb. In questi sistemi le donne rappresentano l’onore familiare e sono perciò il primo oggetto su cui esercitare il controllo, che si concentra sugli aspetti matrimoniali e riproduttivi, assicurando così la perpetuazione della struttura sociale. Lo strumento principale di questo sistema sono i matrimoni precoci che costituiscono una delle cause primarie degli abbandoni scolastici ed assolvono la funzione di bloccare l’individuo dentro le regole sociali del gruppo garantendo la perpetuazione del sistema sociale.
Continuando a vivere nell’ isolamento dei campi sarà possibile aderire ad un doppio registro: quello clanico e quello della cittadinanza, e fino a che si resta chiusi nel ghetto etnico, dove il controllo sociale è fortissimo, è difficile che si riescano a realizzare processi emancipatori. I Rom si trovano quindi presi fra due sistemi valoriali in contrasto che non possono coesistere in quanto uno si porrebbe come distruzione dell’altro, e la mancanza di alternative realisticamente attuabili rende quasi obbligata l’adozione del pacchetto etnico.
La concettualizzazione dei Rom come «super-diversità» ha fatto si che gli interventi si indirizzassero prevalentemente sulla tutela culturale, la mediazione e le pratiche di advocacy, evitando sfide potenzialmente rischiose come quelle dell’inclusione lavorativa. Investire nella mediazione significa sostenere che la popolazione Romanì si trovi nella necessità di praticare una continua opera di traduzione con i non Rom e le istituzioni, rafforzando l’immagine di un gruppo separato dal resto della popolazione, portatore di bisogni specifici e dipendenti dal sistema dell’accoglienza.
Per molti migranti la mediazione si è caratterizzata come intervento temporaneo nella prima fase dell’arrivo, per consentire loro di orientarsi e familiarizzare con servizi ed istituzioni. Ciò si è realizzato per mezzo di alcuni strumenti che anche l’Italia, priva di un vero sistema di welfare, offre (corsi per le «150 ore», corsi di lingua italiana per stranieri). Solo per i Rom la mediazione è stata istituzionalizzata diventando un intervento da attuare su scala nazionale e un progetto congiunto di Consiglio d’Europa e Commissione Europea: il ROMED ROMACT.
L’unica prova dell’efficacia e dell’impatto della mediazione non sta nella sua moltiplicazione, ma semmai nella sua rarefazione, perché questo è l’unico indicatore che potrebbe dimostrare il raggiungimento degli obiettivi di piena cittadinanza. Categorizzare in base a condizioni ascritte come la razza/etnia considerate come un pacchetto identitario dato una volta per sempre alla nascita è tipico della visione essenzialista. Questo modello agisce come strumento di conservazione, risultando funzionale al mantenimento del potere delle élites interne ed impedendo possibili alleanze «interetniche» fra subalterni. Le similitudini fra bianchi poveri ed etnicità povere rimangono rimosse ed invisibili, ed i conflitti, così mascherati, paiono esistere solo fra società «maggioritaria» e «minoritaria», come se si trattasse di due blocchi immutabili, privi di dislivelli sociali. I fallimenti vengono proiettati su cause esterne come l’incuria istituzionale, del resto innegabile, ma vi sono anche forze conservatrici interne alla stessa società romanì che ritardano lo sviluppo di forme di emancipazione. La difesa della tradizione è in genere portata avanti da élites che non vivono più nei campi o che non ci hanno mai vissuto.
Si tratta di persone che hanno potuto emanciparsi dalle dinamiche del ghetto e che si fanno custodi di un’identità etnica «vera» dalla quale sono però ormai fuori. In ciò le élites etniche sono sostenute, spesso inconsapevolmente, dalle stesse istituzioni, che assieme alle ONG si sono spesso fatte carico della rietnicizzazione dei Rom, nel tentativo di fermare le «contaminazioni», chiudendoli in quell’eterno presente in cui l’antropologia coloniale iscriveva le società primitive (per avere un’idea di quanto sia diffuso questa approccio si possono analizzare i contenuti dei laboratori interculturali dedicati al tema Rom).
Questo insieme di motivi previene anche una partecipazione politica organizzata: nei cortei sindacali, oggi pieni di migranti, i rom sono praticamente assenti. I casi positivi si realizzano nel momento in cui ci si stacca dalle dinamiche dei campi-ghetto: un giovane che ha abbandonato il campo, ha poi trovato lavoro in una fabbrica del nord Italia divenendo rappresentante sindacale. Nell’assenza di politiche nazionali di piano per l’inclusione sociale spicca il contributo di gruppi autorganizzati come i movimenti di lotta per la casa, che assieme a qualche progetto istituzionale (Milano, Torino, Messina) costituiscono un buon esempio di politiche per il diritto all’abitare che includono anche i Rom. Le esperienze autogestite sono però completamente ignorate dalle istituzioni europee e nazionali e dalle stesse élites rom. Ignorate sia per la loro informalità e «indocilità», sia perchè il loro rifiuto verso ogni forma di filtro (mediatori o rappresentanti) mette seriamente a rischio l’indotto rappresentato dall’insieme degli specialisti della romanipè.
Sarebbe tempo di innescare un cambiamento di rotta puntando sui valori universali che affratellano piuttosto che vederci sempre come tribù diverse. Anche perché, è il caso di ricordarlo, a fare le spese della tradizione sono sempre le donne.
*Ricercatrice Associata CNR IRPPS
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