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La trama biografica di Winckelmann tra corti, amici e libri

La trama biografica di Winckelmann tra corti, amici e libriTheobald Reinhold von Oër, Winckelmann im Kreise der Gelehrten in der Bibliothek des Schlosses Nöthnitz, 1874, Dresda, Sächsische Landesbibliothek – Staats- und Universitätsbibliothek Dresden

Storia dell'arte Federica La Manna sigilla in una corposa biografia (La nave di Teseo) decenni di germanistica italiana e la definitiva rivalutazione dell’uomo e dell’opera

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

Era un compito difficile ma certamente un compito necessario quello di dare al lettore italiano un quadro completo, leggibile e attendibile della vita di Johann Joachim Winckelmann. Un singolare destino storiografico, infatti, ha fatto sì che questa grande figura di studioso oscillasse sempre tra discipline diverse e che nessuna la riconoscesse mai come pienamente propria, dall’archeologia alla storia dell’arte antica, dall’estetica alla storia della cultura tedesca. Si tratta di un fenomeno che vale un po’ per tutte le culture europee ma vale in particolare per l’Italia dove, per ragioni diverse, si è impiegato più tempo per riconoscere la portata delle sue innovazioni storico-critiche e insieme per capire la complessità della sua vicenda umana. L’anomalia della ricezione italiana di Winckelmann si deve a tante ragioni: alla lunga eco per la sua tragica morte a Trieste nel giugno 1768, alla diffidenza di un certo pensiero antiquario in un’epoca in cui esplodeva furente la passione per l’antico, alla presunzione di un monopolio italiano sulla cultura del mondo antico, ma in particolare a una intermittente resistenza verso il fenomeno del neoclassicismo di cui Winckelmann era stato indubbiamente uno dei padri.
Se in piena Restaurazione (1830-1834) l’Italia gli aveva reso un grande omaggio con l’edizione completa delle opere a cura di Carlo Fea per l’editore pratese Giachetti, nel secondo Ottocento il Carducci era rimasto sostanzialmente isolato nella sua esaltazione di Winckelmann come «araldo de le arti e della gloria». Nel Novecento, soprattutto in ambito storico-artistico, è poi venuta apertamente alla luce una linea nettamente critica. Una linea peraltro assai autorevole che andava da Lionello Venturi a Giovanni Previtali passando per Roberto Longhi, il quale aveva visto nell’opera di Winckelmann una sorta di ritardo teorico e, insieme, un sostanziale riuso di teorie estetiche precedenti. Il verdetto di Longhi sugli «inopportuni pensieri» di Winckelmann e sulla sua «ritardata esperienza mentale» andava del resto in parallelo con la condanna senza appello di Antonio Canova, scultore a suo parere «nato morto». Se ai tempi di Longhi ci voleva coraggio a ribellarsi all’autorità di un suo verdetto, in un recente piccolo libro Vittorio Sgarbi si è opposto con divertente ironia a questo giudizio e ha restituito tutti gli onori allo scultore di Possagno, al Cicognara e al neoclassico italiano (Canova e la bella amata, La nave di Teseo, p.124, € 16,00).
Sul versante della cultura storico-filosofico e storico-letterario le cose andarono invece diversamente e, sulla scia di una generale ripresa degli studi sull’illuminismo tedesco si produsse, più o meno negli stessi decenni, un ripensamento importante dell’opera critica e teorica di Winckelmann. Da Carlo Antoni a Nicolao Merker, da Ranuccio Bianchi Bandinelli ad Arnaldo Momigliano si è fatta strada la consapevolezza delle radici illuministe e antidispotiche del suo pensiero. Con il libro di Rosario Assunto L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del Neoclassicismo europeo del 1973 anche in ambito storico-artistico passava l’idea della prossimità di neoclassicismo e razionalismo e l’ipotesi del carattere prospettico e palingenetico del fenomeno neoclassico.
La disciplina che ha portato più avanti questo complicato processo e ha còlto i frutti forse più concreti di questo nuovo orientamento critico è stata senza dubbio la germanistica, non soltanto in Italia. Sono noti i meriti di Lavinia Mazzucchetti, che nel 1959 invitava la cultura italiana a rileggere Winckelmann, definito «astro di prima grandezza». Questo è avvenuto con un crescente lavoro di approfondimento critico, di edizione e di traduzione delle principali opere di Winckelmann e naturalmente anche con l’apertura e con la collaborazione con altri ambiti disciplinari. Negli anni sessanta era stato il germanista Giorgio Zampa a pubblicare un’edizione commentata e editorialmente bellissima delle Lettere italiane (Feltrinelli), seguite a poca distanza da una nuova traduzione della Storia dell’arte dell’antichità nella collana diretta per Boringhieri da Giorgio Colli. Nel 2016 l’Istituto italiano di Studi Germanici ha portato a compimento l’edizione in tre volumi di tutte le Lettere di Winckelmann, promossa e voluta dal germanista Paolo Chiarini.
Non è certo il caso di ripercorrere qui il lungo processo di sviluppo di questa nuova fase della ricezione winckelmanniana, che naturalmente si è avuta anche sull’onda del doppio giubileo che ha visto celebrazioni ovunque per il 250° della morte nel 2018 e per il trecentesimo della nascita nel 2017. Si può però ben dire che la biografia scritta da Federica La Manna – Winckelmann L’uomo che ha cambiato il modo di vedere l’arte antica (La nave di Teseo «i Fari», pp. 451, € 22,00) – viene a coronare decenni di studi della cultura germanistica italiana, e offre per la prima volta una storia completa di una vita difficile e complessa, sigillando l’avvenuta rivalutazione critica dell’uomo e dell’opera.
In questo corposo lavoro l’autrice ritesse con sobria passione e in modo chiaro e coinvolgente l’intera trama di una vita. Non si scoraggia di fronte a una bibliografia sterminata che espone qualsiasi studioso alla possibilità di fare errori, ma cerca di dar conto di volta in volta dei diversi nodi e grovigli della ormai più che bicentenaria storia critica. Presenta in copertina un’opera molto suggestiva di Fabio Viale, l’artista che alcuni anni fa aveva rivestito il Laocoonte con un tatuaggio colorato, portando così al centro del discorso il rapporto sempre molto discusso sulla policromia della statuaria classica, mentre nella trama del tatuaggio lasciava riconoscere episodi dell’Inferno dantesco. Assai significativo di questa rivisitazione contemporanea di uno dei monumenti simbolo dell’arte antica è il fatto che nel 2018 questo Laocoonte sia stato esposto proprio di fronte a uno dei massimi templi del neoclassicismo europeo, la Glyptothek di Monaco di Baviera. È una copertina che porta il libro subito fuori della visione tradizionale di Winckelmann proiettandolo in un ardito confronto con l’arte contemporanea.
Per quanto riguarda i contenuti specifici del libro di La Manna, dobbiamo dire che non ci sono scarti vistosi rispetto alla materia biografica conosciuta, ma c’è piuttosto un racconto disteso, mediamente attento a tutte le fasi della vita di Winckelmann: la nascita in una famiglia poverissima di Stendal, gli anni di formazione, l’attività di insegnante e bibliotecario, la sofferta conversione al cattolicesimo, il viaggio in Italia, gli anni romani, il soggiorno a Firenze, la frequentazione degli artisti tedeschi a Roma, e infine l’ascesa fino alla carica di Commissario alle Antichità dello Stato vaticano. Una vita tragicamente interrotta dalla morte a Trieste nel giugno del 1768 per mano di un pregiudicato. Nella ritessitura di questa trama c’è una nuova attenzione agli aspetti privati, alle asperità del carattere, all’omosessualità, alle infinite contraddizioni dell’uomo, quali emergono soprattutto dal vastissimo epistolario.
Parco di note, parco di indicazioni bibliografiche, il libro tiene conto senza usare il gergo accademico delle maggiori acquisizioni critiche degli ultimi decenni, a cominciare proprio dalla rilettura in chiave illuminista dell’opera di Winckelmann. Così avviene, ad esempio, nel capitolo dedicato al processo di formazione del giovane studente tra Halle e Jena. L’autrice sottolinea con vigore il ruolo dell’Università di Halle, dove Winckelmann, sempre privo di mezzi, si era iscritto alla Facoltà di Teologia non potendo studiare medicina. Come scrive La Manna proprio in quegli anni la città di Halle viveva mutamenti culturali importanti e si andava profilando come uno dei punti di riferimento dell’illuminismo tedesco: «Qui Winckelmann poté confrontarsi con alcune delle posizioni più moderne nell’ambito della filosofia e dell’estetica, seguendo i corsi dei fratelli Baumgarten e in particolare quelli di Alexander Gottlieb, entrando in contatto con un metodo storico-filologico come quello di Michaelis, e soprattutto poté confrontarsi con un nuovo sistema nell’ambito della medicina, quello dei cosiddetti medici-filosofi che in quegli anni stavano sviluppando idee sostanzialmente nuove nell’ambito scientifico» (p. 47).
Il merito di avere dato adeguato spazio al periodo di Halle è tanto maggiore se si pensa che questo periodo è stato sempre oscurato dalla fase di Dresda. Naturalmente non possono esserci dubbi sul fatto che nella Dresda di Augusto III, a contatto con le splendide collezioni reali e in un contesto di grandi sollecitazioni artistiche, siano maturate le ragioni più forti per la decisione di andare in Italia. Ma partendo per Roma il trentottenne studioso si portava dietro senza dubbio anche le importanti esperienze maturate proprio negli anni trascorsi tra Halle e Jena.
Un altro capitolo della formazione di Winckelmann cui La Manna dà giusto rilievo è il periodo di attività al servizio del Conte di Bünau a Nöthnitz vicino a Dresda; la vita in questa grande biblioteca, il confronto con testi originali e rari, la pratica della trascrizione sistematica di lunghi brani di libri furono senz’altro le premesse di un metodo di lavoro sempre più coerente, e la base sulla quale lo studioso avrebbe costruito l’imponente edificio della storia dell’arte antica.
Altri capitoli meno noti della vita e dell’opera di Winckelmann si offrono all’attenzione del lettore. Un adeguato spazio viene dato, per esempio, a un’opera minore ovvero a un documento di carattere privato che è stato pubblicato soltanto nel 1923, la Descrizione dei più eccellenti dipinti della Galleria di Dresda. Si tratta di una sorta di guida destinata al figlio del Conte di Bünau, nella quale si vede come dalla necessità di descrivere alcune opere d’arte per l’allievo, dall’esercizio del vedere e dalla nuova prospettiva visuale prendono forma modalità di osservazione e di scrittura che avrebbero portato Winckelmann sempre più fuori dell’erudizione e all’invenzione di quello che verrà considerato quasi un vero e proprio genere letterario, la cosiddetta Kunstbeschreibung, il cui esempio più noto sarà la celeberrima descrizione dell’Apollo del Belvedere.
Infine il contributo che deve essere particolarmente apprezzato nel lavoro di Federica La Manna è quello di avere collocato Winckelmann in una dimensione collettiva e di avere arricchito questa vita con tutta una serie di vite parallele, vere microbiografie di maestri, allievi, amici, pittori e artisti, funzionari, principi, cortigiani e cardinali, corrispondenti vicini e lontani. In queste vite a latere che si intrecciano a quella di Winckelmann, si riverberano le luci e le ombre della persona, le sofferenze, le ambiguità, le contraddizioni, le scelte esistenziali e quelle culturali; ma anche gli impulsi di cambiamento, gli intrecci tra arte e potere, tra arte e politica, la gestione del patrimonio artistico e degli scavi archeologici, il traffico dei reperti, gli scontri tra amatori e conoscitori. In questo libro, insomma, una rete di vite e di generazioni si muove attorno a un Winckelmann calato nel suo tempo, dentro un’Europa che si era messa ormai alle spalle l’età barocca e che, anche sull’onda della riscoperta dell’antico e del mito della libertà nella Grecia classica, andava preparando il terreno per la fine dell’antico regime.

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