La pandemia da Covid-19 ha riportato al centro dell’attenzione il rapporto tra conoscenze medico-scientifiche e strategie di intervento politico in campo sanitario, un tema questo rilevante in più esperienze storiche. Durante la pandemia le dinamiche decisionali relative alla gestione della crisi sanitaria sono state caratterizzate da molte difficoltà che hanno fatto emergere aspetti che attengono alle relazioni tra governati e governanti e ai nodi essenziali dell’assetto democratico. Una questione fondamentale che attraversa le tensioni esistenti tra il coinvolgimento degli esperti, il ruolo della politica e la partecipazione della comunità alle scelte sanitarie investe infatti lo spazio per la democrazia. Su questo terreno si sono manifestati i segnali delle criticità che connotano gli attuali processi di svuotamento di quest’ultima e della spoliticizzzazione che la governance tecnocratica del neoliberalismo ha portato a compimento.

Da un lato, le difficoltà di applicare misure contro la pandemia hanno portato i decisori politici a coinvolgere diverse tipologie di esperti per orientarsi nella crisi in corso. Dall’altro, la moltiplicazione dei comitati scientifici di esperti – peraltro scelti sulla base di criteri che spesso privilegiano nomine d’ufficio rispetto alle competenze scientifiche più appropriate – è un riflesso dell’arretramento politico-culturale delle istituzioni del paese, delle difficoltà attraversate dalla partecipazione democratica, e di quelle relative alle possibilità di realizzare rapporti virtuosi tra ambito scientifico-medico, ambito sociale e ambito politico. Il contributo degli esperti è rilevante per prendere decisioni nel modo più informato possibile, tanto più in situazioni di emergenza sanitaria; tuttavia il ricorso massivo a essi corre il rischio di sostituirsi alla responsabilità della politica e delle istituzioni, presenta come indiscutibili le soluzioni adottate perchè “tecnicamente” fondate, sulla base di un passaggio immediato tra i suggerimenti degli esperti e le valutazioni di ordine generale che attengono al vivere associato.

Come è possibile allora far quadrare le esigenze della politica e della democrazia con le competenze degli esperti? La risposta non può trovarsi in astratto ma deve entrare nel merito delle diverse priorità della politica, della qualità dei processi democratici e delle conoscenze di cui gli esperti possono essere portatori. Solo la presenza di un circolo virtuoso tra “buona politica” e appropriate competenze che conducano a risposte adeguate consente di costruire un equilibrio in questo ambito. La storia della salute degli anni Sessanta e Settanta offre una lezione ancora di grande interesse, mostrando come le problematiche che hanno coinvolto le decisioni riguardanti la salute di tutte e tutti siano state soprattutto di natura politica, richiedendo giudizi non solo professionali.

In modo significativo fu già nella Resistenza che si affermò un concetto di salute – presente nell’articolo 32 della Costituzione – volto a incidere su una rinnovata organizzazione della società, ad alimentare nuove relazioni tra cittadini e istituzioni, fondato su un approccio universalistico e globale, sulla partecipazione della popolazione, su un modo nuovo di affrontare i rapporti tra salute psico-fisica dell’individuo e ambiente. Ma il vero momento di svolta per un rinnovato paradigma sanitario capace di saldare discorso scientifico e progettualità politica si ebbe a partire dagli anni Sessanta quando, per dirla con Giovanni Berlinguer, la figura dell’esperto divenne l’espressione della sintesi gramsciana di «specialista + politico» di cui il movimento per la riforma sanitaria fu espressione. Nelle considerazioni di Rossana Rossanda, il periodo storico degli anni Sessanta e soprattutto Settanta fu un «luogo sociale insolito» nel quale specialisti e non specialisti, intellettuali e operai, si incontravano, studiavano assieme, denunciavano e costruivano un diverso modo di concepire la produzione, la tecnologia e la scienza.

La salute, come ambito di vita e di cura delle persone, di una cura che assumeva il significato dell’avere cura opposto alla medicalizzazione terapeutica della società, divenne il terreno di nuove mobilitazioni, in cui furono coinvolti numerosi attori sociali e politici, ambiti collettivi di ricerca, nuovi saperi, originali forme di lotta e di sperimentazione istituzionale. Fu questa sinergia a connotare l’inedito significato di una “politica della medicina” e di una “politica della scienza”, intendendo con queste espressioni il processo alla base dell’incontro fra scienza e politica. Medicina e scienza dovevano essere ripensate tanto nel loro legame con la società, con l’ambiente, con l’assetto produttivo, quanto nelle loro finalità e nei valori fondativi, sganciandosi dalle logiche del profitto, e perseguendo il benessere di ogni singolo e di tutti, ponendosi, per dirla con Laura Conti, «dalla parte della vita». In questo periodo storico nacquero più esperienze volte a porre al centro del conflitto la condizione umana complessiva. Il tema dei rapporti di potere venne declinato nella prospettiva di una modifica dei rapporti fra le classi, di una crescita dei diritti e delle facoltà di ogni essere umano, di nuove relazioni fra specialisti e popolazione. La funzione dello specialista venne indicata come la più rilevante per le sorti del movimento operaio e democratico.

A partire dalle nuove domande che provenivano dalla società, nei termini di un rifiuto della delega, di un superamento della separazione fra specialista e individuo si prospettò una possibile funzione alternativa degli esperti. La chiave di questo mutamento venne individuata nel collegamento tra le loro potenzialità scientifiche e gli interessi dei soggetti collettivi. Di particolare rilievo fu quanto si diede nel campo della medicina del lavoro e della difesa della salute in fabbrica. Grazie al metodo dell’inchiesta, emerse un rinnovamento della pratica sindacale, orientata a costruire una nuova relazione tra gli operai impegnati a ridurre la nocività all’interno della fabbrica e la componente dei tecnici, in specie medici, chimici e assistente sociali. La soggettività e il sapere operaio divennero per i tecnici strumento di conoscenza e trasformazione collettiva della realtà. Si costruì un linguaggio nuovo in grado di connettere il protagonismo e le conoscenze operaie sulle condizioni di lavoro con quelle della comunità scientifica medica. Per intervenire sui problemi connessi al ciclo produttivo occorrevano non solo un insieme di tecniche, ma strumenti politici e valoriali che consentissero di attuare trasformazioni sul terreno delle condizioni di lavoro e di salute dentro e fuori le realtà produttive. Le rivendicazioni della salute negli ambienti di lavoro si estesero all’ambiente di vita collegando il benessere psico-fisico dei lavoratori con quello del singolo e della popolazione. Il lavoro teorico era sottratto alla delega e diventava “sede” di una ricerca comune, di un incontro tra i saperi professionalmente riconosciuti e quelli presenti sul campo.

Ulteriori momenti qualificanti del rinnovamento in corso furono la riflessione portata avanti da alcuni scienziati riuniti attorno a Marcello Cini con la pubblicazione del celebre volume L’ape e l’architetto (1976) e, soprattutto, nello stesso anno, la costituzione di «Medicina democratica, movimento di lotta per la salute», legata alla figura di Giulio A. Maccacaro, nata attorno all’urgenza di riformulare in termini nuovi il rapporto tra medicina, scienza e politica. Se nel primo caso si affermò l’idea di uno sviluppo della scienza e della tecnologia funzionale al capitalismo, con la messa in discussione della neutralità della scienza e l’individuazione del ruolo “di parte” degli esperti; nel secondo fu centrale la critica a una medicina strumentale agli interessi del capitale e un impegno politico per la promozione della salute collettiva. 

Sul terreno della tutela e promozione della salute si costruì un inedito fronte di conflitti sociali e politici, una combinazione delle lotte portate avanti dalle varie realtà di movimento – da quello studentesco, a quello operaio, a quello femminista –, un confronto aperto e plurale tra più realtà all’avanguardia come quelle legate a Franco Basaglia e Franca Ongaro. Le istanze di trasformazione del paradigma sanitario mirarono a investire i rapporti sociali di produzione e riproduzione, l’assetto istituzionale, i nodi della cittadinanza democratica. Tale percorso portò alla definizione di un nuovo paradigma nel legame tra saperi e soggetti sociali, scienza e politica, medici e pazienti. Su queste basi si ebbe una ridefinizione dello statuto epistemologico delle scienze mediche. 

Questa storia propone un metodo di grande attualità, che riguarda i soggetti chiamati a esprimersi, mostrando come gli esperti non bastino. Rimettere la questione della salute al centro della politica può infatti contribuire a una riscrittura universalistica del welfare, alla rimessa in campo di un progetto comune informato da principi di democrazia, da pratiche di responsabilità condivisa e da una socializzazione della cura in ogni spazio quotidiano, recuperando quegli elementi costitutivi del circolo virtuoso tra ruolo della politica e competenze medico-scientifiche.