Visioni

La tragedia del potere ha il colore della notte

La tragedia del potere ha il colore della notte«Lear» regia di Lisa Ferlazzo Natoli – foto Sveva Lucci

Teatro «Lear» di Edward Bond, regia di Lisa Ferlazzo Natoli. Una lettura che restituisce la crudeltà elisabettiana del testo

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 19 dicembre 2015

Il Lear di Edward Bond non ha molto in comune con quello di Shakespeare. C’è un vecchio re chiuso in un’autoreferenziale concezione del potere e due figlie che vorrebbero sbarazzarsi di lui e prendere il suo posto. Il vecchio re sta facendo costruire una grande muraglia che, come quella cinese della lontana dinastia Qin, dovrebbe servire per tenere i nemici fuori dai confini del regno. Ha cominciato quando era giovane e ora l’impresa avanza a fatica. I contadini non ne vogliono sapere. Condanna a morte presunti sabotatori, per mantenere un po’ di paura, e se serve è lui stesso a sparare.

 

 

Le figlie sono giovani e eleganti, tubino nero e scarpe col tacco alto. Una fa la bellina ingenua, con una irriflessiva vena isterica; l’altra si vede che è più solida e concreta. Sciarpe di lana guantoni felpati, canta mentre fa la maglia: «Ecco le cose che piacciono a me». Hanno sposato i regnanti che stanno al di là dei confini, più che altro per «andarsene di casa». Certo ora li sopportano a fatica, quei mariti impotenti che le obbligano a «fare da sé», già complottano perché siano uccisi in battaglia e così sposare un altro. Perché è guerra con il padre, e i comandanti simulano con un esercito di soldatini i movimenti delle truppe sul campo. That’s life, come cantava Sinatra.

 

 

Ma qui siamo già dentro il Lear di Edward Bond che Lisa Ferlazzo Natoli ha messo in scena in una sorta di fastoso cantiere, al teatro India (domani sera l’ultima replica). Impalcature di tubi metallici, su cui si allungano veli leggeri. Porte e finestre appese che girano e si aprono sul nulla. Condutture e vasche d’acqua. Carrelli mobili che diventano improvvisati palchetti. E poi quella luce, la luce artificiale e baluginante dei neon che illumina a fatica una notte perenne.

 

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Perché questo Lear assomiglia piuttosto alla lunga notte di Macbeth, la notte del crimine e della paura, la notte del tradimento, c’è solo sangue che non va più via e avvelena l’acqua dei pozzi. E quei suoni che vengono da chissà dove sembrano dare un ulteriore spessore all’incubo.

 

 

Bond, Edward Bond è l’ultimo esponente della grande drammaturgia britannica della seconda metà del Novecento che da Osborne arriva a Pinter, uomini di scena a tutto campo e non soltanto «autori». E leggendo questo suo Lear si comprende anche da dove venga la crudeltà che attraversa tanta parte della generazione successiva, a cominciare da Sarah Kane. Sulle nostre scene le sue opere sono state fin qui poco rappresentate – però con l’eccezione importante di Luca Ronconi. Anche per questo è importante il progetto costruito insieme alla casa editrice Minimum fax, che affianca lo spettacolo con la pubblicazione di un volume con la traduzione del dramma firmata da Tommaso Spinelli e una serie di altri testi fra cui una assai bella intervista della regista al drammaturgo.

 

 

Quando Lear va in scena al Royal Court di Londra, nel 1971, il «muro» che ne costituisce l’invisibile e tuttavia ossessivo protagonista non era solo metafora ma realtà concreta che divideva l’Europa in due blocchi; come lo è ancora, a quarant’anni di distanza, forse in maniera ancor più esplosiva nel cambiare la linea di confine senza cessare di proporsi come una barriera difensiva da ipotetici invasori. Ma la metafora, se a questa vogliamo restare, investe proprio la continuità con cui si manifesta il potere. Il Lear di Bond mette a confronto due realtà incomparabili, due sistemi politici anche temporalmente sfalsati, un regime ancien fuori dalla storia e quello rivoluzionario che l’ha abbattuto, senza che nulla sia cambiato nel profondo. Quel «muro» da edificare è sempre lì. Non ci sono poteri buoni, ci dice.

 

 

La regia di Lisa Ferlazzo Natoli ne dà conto con una crudeltà davvero «elisabettiana», da «tragedia di vendetta». Dove i carnefici di prima diventano poi le vittime, e viceversa. In un immutato orrore. Nulla è risparmiato, in questo mondo privo di colori, tutto è grigio e nero, mentre di tanto in tanto risuonano ironiche le note di My favorite things. Stupri, mutilazioni, torture, accecamenti, ogni genere di uccisione, anche un’autopsia per il gusto di cacciare le mani nelle viscere sanguinanti.

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Senza compiacimento, ci sembra, ma per una sorta di oggettività. Per dare consistenza visiva a quell’orrore. Non abbiamo potuto essere gentili, fa dire Bond alla leader rivoluzionaria, come avrebbe potuto dire Brecht. Quando noi saremo al potere queste cose non saranno più necessarie. Bond non ci crede più.

 

 

Al canone tragico appartiene invece il solitario percorso esistenziale compiuto dal vecchio Lear di Danilo Nigrelli sgravatosi del potere (oltre alle due sorelle Alice Palazzi e Pilar Peréz Aspa, gli altri sono Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Diego Sepe e Fancesco Villano, tutti impegnati in più ruoli). Ridotto prima allo stato di mendicante e poi privato degli occhi, involontario Edipo che solo così può finalmente «vedere», morirà gettandosi da solo con un piccone contro il muro. A proclamare l’ambigua necessità di un inutile gesto individuale.

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