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La «Tosca» senza dramma scopre la forza della voce

La «Tosca» senza dramma scopre la forza della voceNel ruolo di «Tosca», a Santa Cecilia, Eleonora Buratto

Musica L’inaugurazione della stagione di Santa Cecilia ha proposto l’opera pucciniana in forma di concerto. Eleonora Buratto nella parte della protagonista, direttore Daniel Harding

Pubblicato 4 giorni faEdizione del 24 ottobre 2024

Lunghi applausi calorosi, frenetici, ritmati, grida di «bravi», perfino fischi all’americana, hanno salutato tutti gli interpreti di Tosca: l’inaugurazione della stagione sinfonica per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia non poteva essere più trionfale, benché l’opera di Puccini sia stata eseguita in forma di concerto.

DI FRONTE all’inconfutabilità del successo plebiscitario, alcune perplessità restano. Tosca è un’opera teatralissima, la scena non è un di più, e la musica, da sé sola, non rende l’efficacia teatrale della partitura. Il gesto, l’andamento di conversazione, la continuità drammatica sono l’anima stessa di una musica che ha sì respiro sinfonico, ma con l’intento di dare forza al gesto teatrale. L’idea wagneriana secondo cui il «dramma» è l’azione che si svolge sulla scena, azione alla quale contribuiscono insieme parola, musica, gesto, trova qui una realizzazione perfetta. E la mancanza del gesto si sentiva. Anche perché sembrava ci fosse una certa sfasatura tra la delicatezza con cui Daniel Harding ha penetrato la scrittura strumentale di Puccini – nonostante taluni eccessi di fragore e di stridio nei momenti più concitati – e la vocalità più plateale, discontinua degli interpreti, che davano voce ai personaggi della vicenda. A tutti è parso mancare quel senso di colloquialità, di conversazione, mirabile nei dialoghi che Puccini intesse tra i personaggi o nei momenti di intima riflessione di ciascuno. Nemmeno Eleonora Buratto, la più equilibrata, la più intensa tra tutti, nella parte della protagonista, è riuscita a mantenere questo tono medio, continuo, di controllo sull’espressione, una misura tra il canto e il grido. Jonathan Tetelman, Cavaradossi, fin dall’inizio ha puntato proprio sull’esternazione tenorile, la voce spiegata, in alcuni momenti troppo. Più moderato lo Scarpia di Ludovic Tézier, moderazione disturbata però da inopportune risatine, o addirittura risate, di tradizione veristica, che con la scrittura pucciniana hanno poco a che vedere. Gli altri seguono la corrente.

IN COMPLESSO tutta l’interpretazione vocale è parsa disuguale, squilibrata, tra il piano e il forte, senza mezze voci, senza quel tono medio appunto che è il filo che tiene insieme la conversazione musicale dei personaggi. Quando, inoltre, Harding spinge l’orchestra a estremi fragori, le voci scompaiono, quasi non si sentono.
Evidentemente il successo della serata sta proprio nei suoi limiti, vale a dire nel canto come esibizione di volume, di potenza, nel tenore che si fa tenorissimo. Ma la musica con simili prodezze non ha molto a che spartire. Nei passaggi più riflessivi di questa Tosca, quando l’orchestra delicatamente ha fatto emergere tutta la sapienza di una scrittura quasi cameristica, c’era di che entusiasmarsi. Sarà stata, forse, proprio la mancanza della scena a portare gli interpreti a evidenziare con la voce aspetti che il gesto avrebbe più facilmente realizzato, lasciando al canto la possibilità di contenersi, di restare più musica che gesto. A generare consenso avranno comunque contribuito anche la prova eccellente dell’orchestra, del Coro e del Coro di Voci Bianche dell’Accademia diretti il primo da Andrea Secchi e l’altro da Claudia Morelli.

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