C’è stato un tempo in cui nel rugby non si parlava di denaro. Chi lo faceva era indicato come un poco di buono, una presenza poco gradita, un ospite da mettere alla porta. Nel mondo di Ovalia i soldi erano “lo sterco del demonio” e non serviva dire oltre.Qualunque sia la data di nascita del rugby – il 1823, secondo la leggenda che ne attribuisce l’invenzione a William Webb Ellis, o il 1871, quando nacque la Rugby Football Union e le regole del gioco furono codificate – è un fatto che ancor prima che il secolo si esaurisse, era il 1895, in quel mondo si consumò il primo scisma e tutto avvenne per il vil denaro. Di qua il rugby union, che non ammetteva alcuna forma di professionismo, neppure la più blanda, di là il rugby league, che invece consentiva il pagamento, fosse anche un rimborso spese, dei suoi giocatori. La separazione tra dilettanti e professionisti è andata avanti per cento anni, tra insopportabili ipocrisie e pietose bugie. E si è conclusa dopo la Coppa del mondo del 1995, quando il rugby union si aprì al professionismo cancellando quel suo imperativo morale. Ventiquattro anni fa, poco meno di un quarto di secolo. Da allora ogni dubbio è stato superato di slancio, ogni remora è stata scansata con un’alzata di spalle. Il rugby ha imparato in fretta la lezione dello sport professionistico. Nel giro di pochi anni ha cambiato pelle, ha indossato nuovi sgargianti vestiti, ha preso a macinare soldi. Ricchi premi, ovviamente, ma anche cotillons: gli eterni valori di questo sport, la sua “diversità” rilanciata come componente irrinunciabile di un brand di successo.

Nord contro Sud

Qualcuno si era illuso che “valori” e “business” potessero procedere insieme in un clima di armonia. World Rugby, l’ente che governa il rugby a 15, ha cercato di tenere unite le due istanze con un occhio di riguardo per il fatturato in crescita. Ma come capita anche nelle migliori famiglie, sui soldi si è cominciato a litigare. Nord contro Sud. Da una parte il blocco del Sei Nazioni, il torneo più ricco del mondo – stadi sempre pieni, grande audience televisiva, incassi alle stelle – che ogni anno distribuisce milioni di euro alle sei partecipanti, dall’altra le quattro nazioni riunite nel SANZAAR (Sudafrica, Nuova Zelanda, Australia e Argentina) distribuite su tre distinti continenti, le cui competizioni internazionali (Super Rugby e Rugby Championship) soffrono il confronto economico con l’emisfero Nord. Più ai margini le nazioni del cosiddetto Tier 2, la seconda fascia che comprende una dozzina di squadre (dalla Georgia alle isole del Pacifico, dal Canada al Giappone) distribuite su tutti i continenti.

Ai neozelandesi, per esempio, non piace vedere i loro migliori giocatori emigrare nel campionato inglese o in quello francese, attratti da ingaggi che in patria nessuno pagherebbe loro, mentre il loro campionato suscita sempre meno interesse. Gli australiani sono in crisi da anni perché il loro pubblico preferisce il rugby a 13 o il football australiano. I sudafricani hanno provato a inserire due squadre nel Pro 14 che si disputa in Europa con risultati fin qui pessimi. Gli argentini hanno compiuto miracoli nella transizione al professionismo ma ora hanno il fiato corto.

Per diversi mesi, tra il 2018 e il 2019, si è discusso di una proposta nata in seno a World Rugby ma formulata e sostenuta dal suo vice-presidente, l’argentino Agustin Pichot, di istituire una competizione globale a scadenza annuale, il Nations Championship , nella cui cornice si sarebbero collocate tutte le principali attività internazionali, dal Sei Nazioni al Rugby Championship dell’emisfero australe, ai test match di autunno ed estate.

Bocciato il Nations Championship

Il formato proposto, che ricorda un po’ la NBA statunitense, prevede la partecipazione di 12 nazioni suddivise in due Conference. Al Nord le sei nazioni, al Sud le quattro SANZAR più altre due dell’area del Pacifico scelte tra le meglio piazzate nel ranking mondiale (oggi sarebbero Figi e Giappone). Rugby Championship e Sei Nazioni manterrebbero l’attuale formula ma sarebbero inseriti meccanismi di promozione/retrocessione con le nazioni del Tier 2. Oltre a disputare i rispettivi tornei, ognuna delle nazioni partecipanti affronterebbe quelle delle altre Conference suddividendo questi impegni nelle finestre estive e autunnali. Alla fine le prime classificate di ognuna delle Conference si affronterebbero in finale per il titolo della Nations Championship. La proposta intendeva rilanciare le nazioni attualmente tagliate fuori dai grandi tornei e inserire un meccanismo di promozione/retrocessione che “smuovesse” le acque stagnanti di uno sport caratterizzato da immutabili gerarchie e inevitabili sperequazioni. Inoltre si proponeva che tutti gli introiti (diritti tv, internet, merchandising) derivanti dal Nations Championship confluissero in un unico paniere per poi essere redistribuiti in misura se non paritaria quanto meno negoziabile.

Ma proprio su questi punti (promozione e suddivisione dei profitti) la proposta è stata respinta e affondata. Ostinatamente contrarie le union anglosassoni per ragioni economiche, contrarissima l’Italia che da anni è ultima nel Six Nations e rischierebbe la retrocessione perdendo tutti i ricchi ricavi del torneo. Pollice verso anche dall’Associazione internazionale dei giocatori professionisti, preoccupata per un calendario internazionale che si sarebbe ulteriormente infittito alzando il rischio di infortuni. Ovviamente favorevoli Nuova Zelanda, Sudafrica, Australia e Argentina, oltre alle nazioni europee del Tier 2. Cauto attendismo da parte delle isole del Pacifico che volevano capire quanto la formula le avrebbe avvantaggiate. Grande delusione da parte di Infront, il gigante del marketing sportivo (proprietà cinese e sede in Svizzera) presieduto da Philippe Blatter che gestisce i diritti televisivi dei mondiali di calcio e quelli della nostra Serie A: la società era pronta a investire nel progetto 6 miliardi di euro per i primi 12 anni, affiancando World Rugby e diventandone un partner privilegiato.Progetto bocciato ma forse non definitivamente accantonato. In ogni caso prematuro, considerato il fatto che era richiesto un consenso unanime. Le gerarchie per ora non si toccano ma World Rugby ha comunque fatto un passo in avanti modificando e armonizzando la struttura del calendario internazionale e prevedendo un aumento del 40 per cento dei test-match tra le nazioni del Tier 1 e quelle del Tier 2.

La cassaforte del Six Nations

Per le nazioni britanniche, per la Francia e per l’Italia la proposta del Nations Championship era difficile da ingoiare. In prospettiva avrebbe significato un calo di valore e di interesse tanto per il torneo del Sei Nazioni quanto per la Coppa del mondo – che senso poteva avere mantenere una manifestazione a scadenza quadriennale una volta istituito un suo corrispettivo annuale? In nessun caso i britannici avrebbero accettato che il valore del Sei Nazioni, dalle cui casse ogni anno provengono milioni di sterline, fosse dilapidato e che i suoi ricavi fossero messi in comune con altri. Vale la pena ricordarlo: il Sei Nazioni non dipende da World Rugby. Il torneo è gestito da una società commerciale, la Six Nations Limited, partecipata in modo paritario dalle sei partecipanti. Lo scorso anno il board della società ha scelto un nuovo direttore generale pescando non tra qualche autorevole gloria del rugby ma andando a pescare nel campionato americano di basket, autentica macchina da soldi. Ben Morel, il nuovo direttore generale, è stato vice-presidente dell’NBA e ne ha curato la gestione dei diritti commerciali sul mercato europeo. E’ evidente che il suo mandato è di rinforzare l’autonomia e la forza economica del torneo più antico del mondo.

Nelle scorse settimane la CVC Capital Partners, una società di investimento britannica specializzata in private equity ha bussato alle porte del Six Nations Ltd con un’offerta allettante: 560 milioni di euro in cambio del 30 per cento dei ricavi commerciali del torneo. CVC possiede già il 75 per cento dei diritti della Formula 1 e ha recentemente acquistato il 27 per cento delle quote della Premiership, l’equivalente della serie A di rugby inglese. Ha inoltre in piedi un’offerta analoga per il Pro 14, l’ex Celtic League cui partecipano anche Zebre e Benetton Treviso. Pare che l’offerta di CVC sia stata assai gradita dal consiglio di amministrazione del Sei Nazioni. Il matrimonio probabilmente si farà. Non è piaciuta, invece, a World Rugby che non solo si è vista bocciare il progetto Nations Championship ma ora vede rinforzarsi la posizione del Six Nations dalla cui gestione è di fatto esclusa. Il malumore è prontamente venuto a galla per bocca del CEO di World Rugby, Brett Gosper, che ha attaccato: “Quando il controllo economico di uno sport passa nelle mani di una società di investimento ne può derivare che scelte e decisioni non siano più prese nell’interesse del gioco o della salute degli atleti”. Timori sensati ma al tempo stesso paradossali: nessuno più degli uomini di World Rugby si è speso in questi anni per valorizzare e incrementare i ricavi, modificando a più riprese le regole per rendere il gioco più facile e “appetibile” alle grandi platee. E adesso la torta fa gola a molti.