«La terra promessa», la potenza rivoluzionaria delle narrazioni
Al cinema In sala il film di Nicolaj Arcel, una variazione sull’epica della conquista. Ruvida e struggente, l’opera del regista danese denuda il potere con l’umanità
Al cinema In sala il film di Nicolaj Arcel, una variazione sull’epica della conquista. Ruvida e struggente, l’opera del regista danese denuda il potere con l’umanità
Film terragno, ruvido, regolato da attriti tra corpi, psicologie, desideri di persone semplici, provate dal lavoro, dal rapporto obbligato con l’empiria, o bramosie dei potenti, prepotenti (quasi manzoniano, scottiano in quanto a concezione della storia; tra l’altro: scorrerie di bravi, briganti, lanzichenecchi per tutta la brughiera; ma poi c’è anche Scott Cooper e un film forse sottovalutato come Hostiles), La terra promessa (titolo originale Bastarden) diretto dal danese Nikolaj Arcel, in concorso alla scorsa Mostra di Venezia ha il pregio della «credenza». Si tratta di credere nel mondo nonostante tutto, nel suo esito benigno, cui strumento di ogni credenza sono le narrazioni, il cinema: è la fede nell’umano, magari crudo, desolato, indurito dal corso della storia, ma anche puro, intenerito, incline all’altro, a scoprire la semplicità, la povera chiarità dell’altro, la sua onesta inerzia che fibrilla sulla crosta refrattaria della terra. È da qui, da sotto la coltre di terra brulla, di terriccio arso dal gelo, sfarinato tra le mani del capitano Ludvig von Kahlen (un magnifico Mads Mikkelsen: ma tutti gli interpreti sono all’altezza di questo film bellissimo e feroce, struggente e anfibio per quanto ossessivamente terraneo, con solo un brevissimo spiraglio sul mare là dove anche il cielo sembra negarsi allo sguardo ingombro di steppa; a cavallo tra melò, film d’avventura, film storico); da sotto gli strami, le malerbe, è da qui che, come un tubero, rude nella sua cuticola, povero nella sua fiera complessione, spunta questo senso dell’umano, la possibilità di aderire all’altro, al suo sentimento inerme, quando si pensava che il film fosse tutto un esercizio di nichilismo passivo, un saggio sull’interesse (sugli interessi contrapposti), sulla «roba» e le modalità di conseguirla, sull’atavica, distruttiva difesa delle proprie ragioni – senza il minimo senso della ragione – contro quelle degli altri, come sembrerebbe essere ad esempio un film come As Bestas, altra variazione sul tema della terra.
AL CONCETTO di caos più volte invocato con tanto di sogghigno beffardo e di sproloquio dall’antagonista Frederik de Schinkel (vera e propria maschera luciferina: tra i personaggi più negativi, malvagi e sanguinari del cinema recente) per legittimare la propria cattiveria, la propria furiosa inclinazione alla sopraffazione, Kahlen risponde laconicamente, con l’espressione del volto quasi impassibile, risponde come d’istinto – per una sorta di fisiologia e di ontologia dell’onestà intrinseche all’essere bastardi e tenacemente legati all’idea di riscatto – accogliendo la bambina creola Anmai Mus e la contadina Ann Barbara, con le quali si ritrova a vivere un incunabulo di famiglia, di comunità come barriera al caos, tentativo di bonifica del caos, della sperequazione, della violenza.
DA SCENEGGIATORE esperto Arcel modula questi elementi – i motivi, i personaggi, il contrappunto degli spazi – scandendone la densità, le sfumature, le contraddizioni: ne deriva un film solidamente narrativo, epico (l’epica della terra, della conquista del nord, la mitteleuropa come variante del west), a tratti efferato ma mai in modo gratuito, come quando il marito di Ann viene chiuso in una gabbia e bollito vivo mentre lo si sente gridare di dolore: ma è anche l’urlo di chi guarda, l’urlo dell’occhio, un urlo assoluto di fronte all’orrore della storia.
Eppure non manca la dimensione specificamente iconografica, una teoria delle immagini, uno spessore metaforico dei piani, come nel caso in cui ai corpi uccisi di due coloni il montaggio fa seguire le vivande caramellate, sgargianti sulla tavola di Schinkel, apoteosi di gelatine, cacciagioni, dolciumi versicolori. Tutta la futilità dello spreco, l’idiozia patologica e ferina del potere, da cui il capitano, un momento dopo aver ingurgitato una sbobba in stoviglie di liso legno, fugge alla ricerca dell’essenziale, di un amore, di un elementare testimonianza di umanità.
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