Emilie Demant Hatt era una artista danese, maestra di xilografia, dai tratti espressionisti, ma anche appassionata della pittura a olio, che venne folgorata dal grande Nord, quello del mondo lappone, dove fu per numerosi soggiorni, in specie nel 1907-1908, quando poté dimorare per qualche mese presso una comunità di sami migranti, che la accolsero, tornando poi spesso fino agli anni ’20 in quei territori. La sua esistenza avventurosa è stata narrata con precisione nella biografia di Barbara Sjoholm dal titolo di Black fox, uscita nel 1999.

IN ESSA ha un peso speciale l’incontro con Johann Turi, con cui collaborò per un libro di grande importanza, etnografica e letteraria, la Vita del lappone, primo titolo di un autore sami, che qui dava conto dei riti e dei culti del suo popolo. Il libro in lingua italiana è stato pubblicato da Adelphi nel 1991 per le ottime cure di Bruno Berni, che oggi pubblica da Iperborea, che ha al proprio attivo una ricca collezione di favole del Nord (iniziata nel 2014 con una raccolta di Fiabe lapponi): Intorno al fuoco. Fiabe e storie della terra dei sami (pp. 149, euro 16, con illustrazioni di Lavinia Fagiuoli), con un suo scritto di postfazione, che offre un quadro chiaro di questa peculiare impresa, realizzata da una donna che non aveva formazione di studi di antropologia, ma comprese che in quel modo si trovava un deposito straordinario di storie antiche e mirabili. Il senso della meraviglia della natura, sia pure in un territorio ostile, dalle condizioni proibitive, è quello che Turi, con l’aiuto di Demant, aveva saputo rendere in modo chiaro: «nei tempi antichi ogni cosa sapeva parlare, tutti gli animali e gli alberi e le pietre e ogni cosa sulla terra, e così parleranno anche al momento del giudizio finale». L’autrice, danese per nascita, che conosceva lo svedese, ma non il finlandese, viaggiava nel mondo sami dotata del primo dizionario di quella lingua da poco acquisita su carta per tramite dei lunghi studi di Jens Andreas Friis, severo filologo, linguista e lessicografo norvegese, che aveva pubblicato il suo volume nel 1887.

COME HA BEN RACCONTATO il recente e durissimo film Sameblood (Sangue sami, 2016) della regista sami Amanda Kernell, ispirato a vicissitudini biografiche della nonna dell’autrice la popolazione era sottoposta a un trattamento razzista, a loro era impedito l’accesso agli studi superiori, perché ritenuti non capaci di sviluppo cerebrale, secondo i deliranti trattati di figure chiave del mondo scientifico nordico (leggi simili di discriminazione erano anche in Norvegia e Svezia).
Emilie Demant pubblicò il suo libro nel 1922 a Copenhaghen; si tratta di una piccola raccolta, che faceva seguito a una memoria personale del 1913 (Med Lapperne i Højfieldet, con i sami in alta montagna). Malgrado la ricchezza dei materiali di cui parla nella prefazione, l’autrice non pubblicò una opera di impegno maggiore, come suggerisce Berni, in parte perché si dedicò maggiormente al suo lavoro di artista, ma anche perché tra il 1927 e il 1929 lo studioso norvegese Just Knud Qvigstad pubblicò quattro volumi di fiabe e leggende sami.

LE FIABE ruotano tutte intorno alla relazione, intensa e magica, con la natura dominante. Tutto si svolge nel kote, casetta di legno assediata dalla neve e dal ghiaccio, dove il fuoco mantiene possibile l’esistenza. La ricchezza del popolo non è l’oro, ma le renne, il cui grande numero indica benessere economico. Ognuno dei beni è stato ottenuto per tramite di commerci con le potenze sotterranee (e l’autrice sottolinea maliziosamente che anche gli svedesi hanno avuto le loro proprietà nello stesso modo).
Il diavolo è sempre in agguato in storie in cui un paio di scarpe non si può portare in chiesa perché fatto di pelle umana, continua è la presenza di una razza di giganti malevoli gli Stallo, che spesso i sami riescono a tenere a bada, ma assai peggiori sono i nemici umani (russi in primo luogo), che arrivano per scorrerie e violenze, venendo definiti come ciudi o gareljak (ossia provenienti dalla Carelia). Tale era la loro crudeltà che, secondo una fiaba, i sami vivevano sotto terra, ma attraverso i noaidi, gli sciamani, fondamentali nella loro cultura, avevano ritrovato la via della luce.