La teoria estetica della frutta lascia l’amaro in bocca
Il fatto della settimana Nel mondo si perde il 21,6% dell’ortofrutta (anche per la «bruttezza» dei frutti secondo gli standard del mercato). In Italia si sprecano 36 chili di cibo a testa
Il fatto della settimana Nel mondo si perde il 21,6% dell’ortofrutta (anche per la «bruttezza» dei frutti secondo gli standard del mercato). In Italia si sprecano 36 chili di cibo a testa
Carote con due gambe, zucchine sovradimensionate, arance sotto taglia, mele oblunghe, patate bitorzolute o a forma di cuore, pere storte, kiwi siamesi, melanzane a mezzaluna, albicocche puntinate, pesche con affossamenti tipo L’Urlo di Munch, peperoni a seggiolino. No, niente Ogm. Il contrario, semmai.
E non chiamiamoli brutti. Semmai originali, biodiversi, anche artistici. Frutti e ortaggi strani che si discostano dagli standard di volume e forma. Commestibilissimi, buoni come gli altri; proprio come quelli molto maturi, beccati dagli uccelli o con il «marchio» di un insetto. Ma i più non gradiscono, soprattutto nella parte del mondo che ha abbondanza alimentare – magari di cattiva qualità.
IN ITALIA, 36 CHILOGRAMMI DI CIBO pro capite vanno perduti ogni anno lungo tutta la catena di produzione, distribuzione e consumo. Il costo complessivo arriva all’1% del Pil nazionale, con una stima che oscilla tra i 12 e i 16 miliardi di euro. Nel caso dell’ortofrutta, a livello mondiale, la perdita di prodotto nei campi – e sugli alberi -, arriva al 21,6% in media, secondo il rapporto State of Food and Agriculture 2019 dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si distingue fra «perdita» (a monte, campi e stoccaggio) e «spreco» (a valle) lungo la catena di approvvigionamento, fino alla vendita e al consumo finale.
FRA LE CAUSE DELLA PERDITA/SPRECO, si denuncia la mancata adesione al calibro, allo standard di forma, volume, perfino colore da parte di alimenti validi, scartati per le esigenze logistiche che l’industria alimentare ha imposto a suo tempo e poi interiorizzate dai consumatori. Come se non bastassero le altre spade di Damocle (ad esempio: «Un’imprevista gelata arriverà fra pochi giorni, le insalate e i broccoli in campo non possono resistere», scrive un agricoltore a un gruppo d’acquisto).
Fra le numerose alee (condizioni climatiche, invasioni di parassiti, oscillazioni negli sbocchi, deperibilità) che contribuiscono alla perdita di prodotto fin dai campi, ecco dunque – spiazzante – l’estetica applicata all’ortofrutta.
DIETRO, CI SONO L’IMPRONTA ECOLOGICA di milioni di ettari coltivati per niente, un grande consumo di acqua, l’impiego di energia e relativi gas climalteranti per produrre gli input, l’impatto dei trasporti, le emissioni dalle discariche. Eppure, solo 11 paesi finora hanno indicato, fra gli obiettivi climatici nazionali (National Determined Contributions), impegni contro la perdita di cibo. Nessuno poi ha inserito lo spreco alimentare a valle. Eppure, spiega il Programma Onu per l’ambiente (Unep) «nei piani d’azione per il clima, questa attenzione insieme alla svolta verso diete sostenibili potrebbe abbattere le emissioni dei sistemi alimentari fino al 25%».
IN UN FOCUS SULL’ORTOFRUTTA che sfugge agli standard formali, il documento Beauty (and taste) are on the inside! (sempre della Fao, 2018) esordiva: «Mentre 820 milioni di persone ogni giorno non mangiano a sufficienza, nel mondo un terzo delle derrate prodotte -1,3 miliardi di tonnellate – viene perso o sprecato; la cifra sale al 45% nel caso di frutta e ortaggi». Per poi suggerire ai consumatori, se non altro, di non guardare all’aspetto e di non scartare i prodotti molto maturi, che lasciati sul banco verranno buttati.
IN AFRICA, LE PERDITE DI ORTOFRUTTA nei campi e nella distribuzione, pari al 50% del prodotto prima della pandemia, sono da imputarsi a debolezze logistiche e non certo a malvezzi dei clienti. Invece in Europa, secondo uno studio dell’università di Edimburgo (lo studio è stato pubblicato sul journal of the cleaner production), una buona parte dei 50 milioni di tonnellate di prodotti della terra scartati ogni anno prima di raggiungere il punto di vendita è rappresentata da prodotti indesiderati per via della loro forma non omologata o fuori taglia (per difetto e per eccesso). Tre le ragioni: le normative governative, gli standard dei supermercati e l’atteggiamento dei consumatori che selezionano di preferenza pezzi canonici.
LO STUDIO «EPIDEMIA DELLO SPRECO alimentare», pubblicato nel mese di dicembre 2020 sul sito sciencedirect.com, si sofferma appunto sulla mancata accettazione da parte dei consumatori di frutti e ortaggi che hanno forme speciali. Gli standard cosmetici dell’ortofrutta, a lungo imposti dal mercato e dalle norme europee (o statunitensi), in nome della praticità logistica, hanno plasmato stereotipi riguardo a forma e dimensioni, pur ininfluenti sulla qualità organolettica del prodotto.
Anche quando sono ammessi alla commercializzazione, i «diversi» vengono relegati a una categoria inferiore, nella mentalità del consumatore finale, la cui «avversione per i cibi imperfetti è stata individuata come un fattore importante nello spreco alimentare a valle». Invece, «chi ha un’esperienza personale nella raccolta e nella produzione alimentare ha in testa prototipi più realistici e variegati».
UN CAMBIAMENTO NORMATIVO PUO’ aiutare molto. Almeno a livello europeo, negli anni gli standard qualitativi (sulla base di criteri come forma, dimensione, colore) sono stati parzialmente ridefiniti. La normativa europea sulla commercializzazione dei prodotti agricoli, per esempio, si articola in due parti. Quella generica – ogni prodotto della terra deve avere una «qualità sana, leale e mercantile» – e la normativa specifica che si riferisce a peso e forma; e che ha poco senso soprattutto nel campo del biologico dove la diversità è una ricchezza, e considerare scarto o seconda scelta un frutto «diverso» va contro gli stessi principi guida.
STANDARD MINIMI DI FORMA E DIMENSIONE sono previsti dal regolamento europeo 543/2011, per il quale norme di commercializzazione specifiche riguardano tuttora: mele, agrumi, kiwi, lattughe, indivie ricce e scarole, pesche e nettarine, pere, fragole, peperoni dolci, uve da tavola, pomodori. Le disposizioni, oltre al calibro, prevedono che i frutti siano «ben formati».
Altri prodotti freschi possono invece essere venduti anche se non rispettano il calibro. Inoltre non sono soggetti all’obbligo di conformità alle norme di commercializzazione i prodotti contrassegnati dalla dicitura «destinati alla trasformazione industriale» o «destinati all’alimentazione animale o ad altri usi non alimentari» e «i prodotti ceduti dal produttore nella propria azienda».
ORMAI ANCHE LE CATENE DI DISTRIBUZIONE organizzata si pongono il problema. In Italia prosegue il progetto CosìPerNatura (vedi intervista allegata, ndr), in Francia l’ortofrutta moche (brutta), con sconti sul prezzo medio, ha avuto buoni riscontri e così la Perfectly Imperfect della britannica Tesco.
L’obiettivo 12 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile prevede che entro quella data «sia dimezzato lo spreco di cibo pro capite a livello di vendita/consumo e siano ridotte le perdite di cibo lungo le catene di produzione e approvvigionamento». Se si considera che – come ha asserito il Programma alimentare mondiale (Wfp) – «il 2021 sarà catastrofico, con la peggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale e una decina di paesi alle soglie della carestia», soprattutto a causa delle misure mondiali anti-Covid, cogliere ogni frutto diventa ancora più imperativo.
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