La teatralizzazione del dolore
Antropologia I «Misteri» del Venerdì Santo a Procida e a Sessa Aurunca, rituali che riappropriandosi dello spazio tendono a esorcizzare la paura della morte
Antropologia I «Misteri» del Venerdì Santo a Procida e a Sessa Aurunca, rituali che riappropriandosi dello spazio tendono a esorcizzare la paura della morte
I riti della Settimana Santa si svolgono principalmente nel giorno del Venerdì Santo. Non solo in Campania ma in tutto il Meridione sono diffuse processioni penitenziali, sacre rappresentazioni e i «Misteri», ovvero strutture realizzate in legno e cartapesta che ricordano momenti della Passione e della Morte di Cristo. Tali rituali arcaici persistono e raggiungono un altissimo grado di spettacolarità e intensa partecipazione di persone, nonostante viviamo in una società sempre più multiculturale e ipertecnologica. Il perché di siffatto coinvolgimento è ben chiarito da Luigi Maria Lombardi Satriani: «La Pasqua è legata a significati antichissimi, è il tempo della morte e della rinascita, ed è anche un momento di passaggio di stagione, in cui il seme deve germogliare nella terra, all’interno del tempo ciclico tipico delle culture contadine.
Su questo sostrato pagano si è inserito poi il cristianesimo che è sopravvissuto millenni proprio per la sua capacità di assimilare anche elementi di culti preesistenti. E così la Pasqua è l’esaltazione della vita che trascende la morte, è il tempo in cui le comunità si garantiscono dai rischi dell’esistenza». La Pasqua cristiana celebra la resurrezione di Cristo e commistiona parte della simbologia precristiana legata proprio ai riti di passaggio, in primis al mito di Adone che muore e rinasce ogni anno. Le funzioni principiano il Giovedì Santo in chiesa con la visita ai «sepolcri» realizzati con vasi, piatti contenenti germogli di grano, fiori freschi e legumi: esplicito richiamo al ciclo vegetativo fatti germogliare al buio per far assumere loro un colore chiaro. Rimandano ai «giardinetti di Adone», recipienti nei quali fiorisce il grano al buio, in segno di lutto per la morte dell’eroe. La mitologia, infatti, raffigura Adone come un giovane bellissimo, amato da Afrodite e da lei affidato a Persefone affinché lo protegga.
Ma Persefone se ne innamora e lo contende ad Afrodite. Zeus risolverà la disputa ordinando ad Adone di passare un terzo dell’anno con Afrodite, un terzo con Persefone e un terzo con la persona di propria scelta. Adone viene poi ucciso da un cinghiale mandatogli contro, mentre caccia, da Ares, amante della stessa Afrodite. Il processo rigenerativo, connesso a un dio che muore e resuscita (Adone, Attis, Cristo), è sempre presente nelle diverse culture quale significante di un tempo di crisi annuale e sintomo premonitore di morte della natura deificata, proprio perché con l’atto di resurrezione e rinascita tutela l’esistenza futura dell’intera comunità. Lo scenario campano è ricco di eventi e processioni che raccontano la Passione di Cristo attraverso lo strazio della Mater Dolorosa.
La tradizionale processione che si svolge nell’isola di Procida (NA) all’alba del Venerdì Santo è senza dubbio una delle più emozionanti e suggestive ed è caratterizzata dai «Misteri» allestiti dagli stessi isolani. Sin dalla sera del Giovedì Santo, tali «Misteri» sono collocati sul punto più alto dell’isola, nei pressi della chiesa di San Michele. La processione inizia all’alba: avanza fino alla marina dell’isola e viene annunciata con il suono stridente di una tromba, intervallato ritmicamente da tre colpi sordi di tamburo. Un suono identico a quello che conduceva i condannati a morte nell’antica Roma. Il corteo è formato da soli uomini, incappucciati, vestiti di bianco con mantellina azzurra detti «paputi».
La processione dei «Misteri» è aperta dai suonatori che preavvisano cupamente il passaggio con i propri strumenti. Il corteo è chiuso dal Cristo morto e dalla Mater Dolorosa, accompagnati da donne e bambini vestiti di nero con ricami dorati in segno di lutto. Tale veste richiama quello della Mater Dolorosa. Il rito si svolge da circa tre secoli ed è organizzato dalla congrega dei Turchini, fondata nel 1627 dai Gesuiti. Roberto De Simone mette in risalto che «le caratteristiche con le quali la manifestazione è stata osservata fanno pensare immediatamente a quelle importate dalla Spagna a Napoli nel secolo XVI e poi tanto propagandato dai gesuiti.
L’impiego della tromba e del tamburo, di elementi sontuosamente barocchi di catene e flagelli, tutto rimanda alle descrizioni fatte dagli scrittori napoletani del Cinquecento e del Seicento nelle processioni pasquali dette appunto processioni degli spagnoli». Negli ultimi anni, le norme post-conciliari hanno condizionato anche Procida; hanno tentato, infatti, di abolire o quantomeno ridimensionare la processione del Venerdì Santo, ma energica e lesta è stata la resistenza di tutti i Procidani. Portandoci da Procida a Sessa Aurunca (CE), percepiamo che l’immagine della scansione del dolore e del lento predisporsi alla ritualità della morte sono palesi sin dai primi giorni della Quaresima. Il rito è caratterizzato dalle donne che infiorano di rose le ferite del Cristo morto e da un canto tradizionale eseguito da tre voci maschili (alta, media e grave).
È il Miserere, una composizione musicale polifonica di tradizione orale sui versi del Salmo 50 di Davide, uno dei rari esempi di polivocalità popolare presente in Campania tramandato solo oralmente. Durante l’esecuzione del Miserere le sonorità armoniche, che ricordano nenie arabe o andaluse, proiettano tutti i presenti in uno stato di rapimento e inquietudine, in una dimensione surreale distante dalla nostra epoca e dalla nostra cultura. Sempre secondo De Simone «dal punto di vista storico musicale ed etnomusicologo, questo Miserere pone una serie di interrogativi sui rapporti tra musica d’arte e musica popolare». La processione ha luogo nelle ore notturne con i confratelli del S.S. Crocifisso incappucciati e vestiti di nero, e dai «Misteri» illuminati da fiaccole. I «Misteri» vengono sollevati e portati a spalla e già dai primi passi, all’interno della chiesa, ha inizio la caratteristica cunnulella, movimento dondolante e sincrono delle spalle e dell’intero corpo.
Lo stendardo nero, con le insegne della confraternita, fa capolino alla porta della chiesa, avvolto in segno di lutto per la morte di Cristo. Si tratta di una funzione risalente molto probabilmente al XV secolo, quando sono nate le prime confraternite – legate agli ordini dei Francescani e dei Domenicani – con l’intento di svolgere un’azione riformatrice. Sono rituali che consentono di riappropriarsi dello spazio, reso luogo protetto perché investito di cariche sacralizzanti che tendono a esorcizzare l’angoscia di morte non eliminandola dalla realtà, ma includendola nella vita stessa come tempo avverso individuale ritrovato e ristabilito ogni volta dall’esistenza della collettività attraverso la teatralizzazione del dolore. È l’occasione culturalmente de-codificata per percepire la morte senza esserne contagiati e per destorificarla grazie a una rete simbolica e metaforica. È un arcaico rituale del dolore dove allo Stabat Mater, che mostra una composta sofferenza della Mater, si contrappone una Donna de Paradiso, che costituisce il modello delle Passioni medievali e si sviluppa secondo le formule più popolari.
Non a caso, nella lauda Donna de Paradiso – composta, come lo Stabat Mater, da Iacopone da Todi – le espressioni del planctus «Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si lattato? […] Se i tollite el vestire, lassatelme vedere, como el crudele firire tutto l’ha ensanguenato!» riprendono i modelli del pianto funebre rituale con moduli disperati e iterativi della più antica lamentazione mediterranea e precristiana con le proprie crisi e i propri momenti di assenza. Negli Acta Pilati – un apocrifo del V secolo – alla vista del Cristo flagellato, Maria perde i sensi e quando rinviene si graffia il viso e si percuote il petto: gesti che ricordano e accolgono l’arcaico lamento funebre dinanzi all’incommensurabile dramma della morte.
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