Un posto in campagna, d’estate. Due casolari. Uno è abitato da una famiglia: moglie, marito e il figlio Giulio di 18 anni che vive un rapporto profondo con la natura, la terra, i fiori. L’altro, confinante, è abbandonato, finché un giorno vi torna la ventenne Lia, che in quel luogo era cresciuta. È una ragazza silenziosa, scontrosa, si comporta in modo misterioso. Eppure, tra lei e Giulio sorgerà un’intesa fatta di conflitti e desideri, di prossimità e allontanamenti, di seduzioni e subitanee fughe.
Questo è lo spazio e questi sono i protagonisti de La tana, sorprendente opera d’esordio di Beatrice Baldacci che espande nella durata del lungometraggio il cortometraggio documentario Supereroi senza superpoteri del 2019, basato sulla relazione della regista con la madre malata. Un elemento, quello della malattia, presente anche ne La tana, ma, pur assumendo, da un certo punto della narrazione, un ruolo rilevante, tangenziale alla descrizione dell’incontro che segnerà la vita dei due giovani e che rappresenta il cuore del film.
La tana (da oggi in sala) è fatto di luce e di buio, di immagini tattili, liquide, sensoriali, di un’epidermide visiva che avvolge come un manto leggero il corpo della vegetazione, filmato fin nelle sue pieghe più nascoste, e quelli di Lia e Giulio, da soli o insieme. Lia (alla quale Irene Vetere, con una magnifica prova d’attrice, dà un’ampia gamma di sfumature interiori e fisiche attraverso le espressioni del volto e i gesti del corpo) «provoca» Giulio (Lorenzo Aloi), fin dal loro secondo incontro (nel primo gli chiude le persiane in faccia) al lago e nel prato, quando sono ancora degli «estranei» eppure sentono di poter condividere un’esperienza che li muterà.

La tana (da oggi in sala) è fatto di luce e di buio, di immagini tattili, liquide, sensoriali, di un’epidermide visiva che avvolge come un manto leggero il corpo della vegetazione, filmato fin nelle sue pieghe più nascoste, e quelli di Lia e Giulio, da soli o insieme.

GLI SI AVVICINA, lo attrae a sé, scappa. Per il ragazzo l’impenetrabilità di Lia è fonte di curiosità e immaginazione che lo condurrà a spiarla, desiderarla, tentare di comprendere cosa accada dietro le porte e le finestre chiuse di quella casa. Il film è scandito dagli incontri ravvicinati e interrotti, per improvvisa decisione di Lia. Oltre a quelli già ricordati, ecco una prima scena di sesso rinviata; in auto a fari spenti Lia che scarica Giulio perché ha paura; in giardino, la repentina scelta di Lia di riportare a casa la madre dopo che Giulio l’aveva convinta a farla uscire dall’oscurità della stanza, sempre a letto per la malattia degenerativa che l’ha resa inferma e che farà prendere a Lia la decisione estrema di condurla alla morte.

NON C’È INQUADRATURA che non sia una folgorazione visiva. La tana ha la potenza di un cinema fatto di vibrazioni, abbandoni, ellissi, innamorato di quello che sta filmando, delle facce dei due giovani interpreti così come della varietà floreale portata in primissimo piano dallo sguardo felicemente «underground» e «nouvelle vague» della ventinovenne cineasta. Veri e propri lampi che entrano nelle scene, al pari di quelli della madre giovane e danzante che affiora in alcuni flash di memoria. Quelle di Baldacci sono immagini al tempo stesso fragili e inscalfibili, d’aria e di carne, di isolamenti (si pensi anche a Lia che dorme in auto per trovare un proprio rifugio dal dolore che sta vivendo) e di intimità. Lia «annusa» Giulio e quello che le sta intorno, cerca un contatto di cui sente il bisogno e che La tana rende tangibile e rappresentato soprattutto attraverso gli sguardi e i silenzi. Un percorso mantenuto fino alla fine, e che non si chiude. Non c’è un «lieto» o un «cattivo» fine, e nessun romanticismo. Permane quella necessità «animalesca» di scrutarsi e cercarsi, guardarsi nel riposizionamento costante delle vicinanze e delle distanze.