Mezz’ora di tempo per rispondere a Renzi. Con il consueto garbo il leader di Italia viva interviene al senato e ripete i suoi ultimatum al presidente del Consiglio proprio a ridosso della conferenza stampa di fine anno, appuntamento al quale Giuseppe Conte si prepara da giorni. Il presidente del Consiglio ha bisogno così di qualche minuto in più dopo aver ascolto il rivale. Se Renzi piazza una frase di Aldo Moro da libro scolastico, la citatissima «la verità è sempre illuminante, ci aiuta a essere coraggiosi» contenuta in una lettera dalla prigionia a Riccardo Misasi (mai recapitata), Conte ricorre all’ultimo discorso dello politico democristiano. Statista al quale due anni e un governo fa ha, senza apparente imbarazzo, dichiarato di volersi ispirare. Gli ultimatum, dice Conte, sono inaccettabili perché, e questo è Moro, «avrebbero il significato di una stretta che rischierebbe di fare precipitare le cose verso una conclusione negativa».

Moro, pochi giorni prima del rapimento, parlava ai parlamentari Dc in una crisi già aperta, per convincerli al governo di solidarietà nazionale e scansare così le elezioni. Conte la crisi cerca ancora di evitarla, ma in testa ha sempre lo stesso schema. Sopire le polemiche, rimandare i problemi, arrotondare gli angoli. Se Renzi ha concluso annunciando che «la palla passa al governo», lui risponde che non può credere alla crisi ora che «l’Italia ha ricostruito la sua credibilità». E, nel caso, la palla intende gettarla subito nell’altro campo: «Se verrà meno la fiducia di una forza di maggioranza ci sarà un passaggio parlamentare in cui tutti esprimeranno la propria posizione e si assumeranno le proprie responsabilità».

È lo schema anti Salvini dell’agosto 2019. Con Renzi, questa volta, nella parte del traditore dell’alleanza che il presidente del Consiglio immagina di crocifiggere nell’aula del senato. La strategia si fonda sulla convinzione che l’attuale maggioranza non possa arrivare al suicidio delle elezioni anticipate. E che dunque qualcosa di diverso, un rattoppo o una nuova maggioranza, inevitabilmente accadrà. Minacciare le elezioni senza mai crederci è del resto un rito al quale è difficile sottrarsi nei preamboli delle crisi. Stavolta il presidente del Consiglio ha appena firmato il decreto legislativo che rende operativa la vecchia legge elettorale maggioritaria anche con il nuovo parlamento ridotto. «Prenderò un’iniziativa per cambiare la legge elettorale nel senso dell’accordo di maggioranza per bilanciare la rappresentanza», dice infatti il presidente del Consiglio rispondendo per la prima volta a una richiesta che Pd e Leu fanno da tempo di fronte allo stallo sul proporzionale. Una risolutezza che contiene un messaggio: se si va a votare adesso ci teniamo il maggioritario, se si tira avanti possiamo arrivare a un accordo.

Nel frattempo Conte non vuole «galleggiare» e nemmeno «vivacchiare», desidererebbe «una maggioranza coesa». Però a sciogliere i nodi non ci prova nemmeno, troppo pericoloso. Sui servizi segreti «è chi mi chiede di lasciare la delega che dovrebbe spiegare perché non ha fiducia nel presidente del Consiglio». Sul Mes «si esprimerà il parlamento», ancora. Sul Recovery Plan, soprattutto, ci saranno altri incontri, un Consiglio dei ministri e – solo dopo – il confronto con le parti sociali, uno spazio persino per il parlamento e nel frattempo sicuramente «un decreto sulla struttura di governance», cioè la famosa cabina di regia che piace zero a Renzi e non troppo al Pd. Tutto questo complesso iter, che arriva sei mesi dopo il varo dello strumento europeo, è ancora da compiere visto l’infelice esito delle bozze prodotte da palazzo Chigi. Eppure Conte dopo averlo illustrato riesce a dire che bisogna fare presto «la sintesi politica è urgente», anzi «non valgono i giorni di festa». Il Consiglio dei ministri ci sarà «nei prossimi giorni» e il varo definitivo, prevede, a metà febbraio. Intanto il bollettino di Italia viva ieri sera dopo l’incontro con Gualtieri sul Recovery Plan è questo: «Ci separa un abisso».

«Io sono per un confronto franco e costante per risolvere i problemi», dice Conte scivolando tra quaranta domande in tre ore di conferenza stampa, «ma tutti devono chiarire a cosa mirano e se ci sono malesseri». L’interrogativo era perché il presidente del Consiglio non avesse fin qui provato a risolvere i problemi nella maggioranza, la risposta è che la soluzione è appunto non affrontarli. Anche sul famoso rimpasto dice di dover «difendere la mia squadra» ma insieme che «cambiare non è un problema, si lavora con le forze di maggioranza». Vicepremier? Nel precedente governo hanno avuto «scarso successo», ma attenzione non è una dichiarazione definitiva: «I protagonisti cambiano». E anche sull’eventualità di un partito di Conte, la non risposta è puntuale: «Non riesco a considerare la prospettiva elettorale, non posso distrarmi». Dal Recovery Plan, naturalmente.