La fama di Marco Polo non sembra destinata a tramontare, anzi la centralità assunta dalla Cina sul piano internazionale in questi ultimi due decenni, la nuova via della seta, i sussulti del continente asiatico ci portano continuamente indietro nel tempo, a quel XIII secolo che vide il risveglio dei mongoli e, negli ultimi decenni, i viaggi di Nicolò, Maffeo e Marco presso la corte di Kublai Khan. Certo, l’Europa si era svegliata da uno choc imponente quando, nella primavera del 1241, i cavalieri di Batu Khan, impadronitisi di quel territorio tra il Volga e il Mar Nero che sarebbe stato il nucleo del regno dell’Orda d’Oro, si erano riversati sulla Polonia, sulla Boemia, sull’Ungheria.

La migliore cavalleria cristiana non aveva retto all’urto di quelle torme che alla fama di una assoluta crudeltà univano una disciplina e una abilità strategica eccezionali, e a Liegnitz erano stati fatti a pezzi anche i cavalieri Teutonici, il meglio che l’Occidente potesse mettere in campo. Si pensò allora a una crociata, ma ai mongoli facevano più gola la ricca Cina meridionale governata dai Song oppure il califfato di Baghdad, e presto si rivolsero verso nuove mete: a quel punto in Europa si cominciò a pensare non più solo al pericolo, ma anche alle opportunità offerte dall’Asia dominata dai mongoli.

È IL PERCORSO che segue Gherardo Ortalli in Dall’Europa a scoprire l’Oriente. Da Gengis Khan a Marco Polo (Viella, pp. 162, euro 20). «Che l’Occidente europeo del pieno Medioevo si sia trovato a scoprire un ‘pianeta’ orientale esistito per secoli soltanto nella dimensione della leggenda, se non addirittura della fantastica invenzione, è un grande evento per il quale il prima e il poi si collocano in ben distinti (e databili) momenti storici», scrive Ortalli all’inizio del libro, diviso in due parti: una prima dedicata a quelli che, con fortunata espressione, venivano detti «precursori di Marco Polo» (Giovanni di Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck sono i più noti sebbene non gli unici), ma che in realtà viaggiavano in qualità di diplomatici e missionari, non di mercanti come il veneziano, lungo le vie dell’Asia conquistata di fresco da un popolo seminomade del quale nulla sapevano. Una seconda parte è invece rivolta all’esperienza del veneziano. Sono questi gli spartiacque fra un passato di leggende e un futuro di scoperte e rapporti, in primo luogo commerciali.

A questi ultimi soprattutto è dedicato il volume di Nicola Di Cosmo e Lorenzo Pubblici, Venezia e i Mongoli. Commercio e diplomazia sulle vie della seta nel medioevo (Viella, pp. 316, euro 32) che prende le mosse invece da una duplice espansione: quella dei mongoli, certamente, ma anche quella di Venezia a partire dalla conquista di Costantinopoli nel 1204.

LA SERENISSIMA si appropriava così (almeno per qualche decennio fino all’inizio della competizione con Genova) dei preziosi sbocchi sul Mar Nero, sul quale a un certo punto, ossia tra 1251 e 1266, faranno capolino i mongoli. Il rapporto fra queste due realtà, così diverse fra loro, ma a tratti complementari, passa attraverso il consolidamento degli anni 1319-1343, che culmina con l’espansione della comunità veneziana a Tana, per poi entrare in una fase di crisi proprio a partire dalla stessa città, nella quale si registrarono violenze intercomunitarie.

Seguì la peste che attraversò il continente eurasiatico fino al Mediterraneo, per poi giungere a nuovi assetti mentre cresceva la potenza ottomana. Se questo racconto cronologico costituisce la prima sezione del libro, Nicola Di Cosmo e Lorenzo Pubblici si spostano con la seconda su aree tematiche, partendo ancora una volta da Marco Polo, definitivamente rivalutato dopo qualche goffo tentativo di negare realtà a quanto da lui narrato.

SI PARLA DUNQUE di movimenti, strumenti e merci, al fine di mostrare come l’interconnessione fra Venezia e i mongoli, fra Europa e Asia sia stato un tournant fondamentale nella storia del basso-tardo medioevo certamente, ma anche oltre questo confine cronologico, dal momento che l’idea dell’economia-mondo, della storia globale, comincia a prendere peso proprio da questi momenti. È importante che se ne parli dunque non soltanto in rapporto a modernità e contemporaneità, ma anche in rapporto al medioevo, facendolo uscire dall’insularità al quale la storiografia l’ha troppo spesso relegato.