La strada obbligata di Conte porta al Colle. E ora punta sul ter
Ricomincio da me Dopo una giornata di tentennamenti, il premier a malincuore sceglie la strada delle dimissioni per ottenere il reincarico
Ricomincio da me Dopo una giornata di tentennamenti, il premier a malincuore sceglie la strada delle dimissioni per ottenere il reincarico
Attese per ore ieri pomeriggio, le dimissioni di Giuseppe Conte arriveranno questa mattina. Il premier salirà al Colle, dopo aver riunito alle 9 il consiglio dei ministri per formalizzare la sua scelta, del resto obbligata. Da quel momento le chiavi della crisi saranno in mano a Sergio Mattarella che inizierà la consultazioni rapidamente, probabilmente già a partire da domani. Il ritardo non è dovuto a indecisioni o manovre in corso. Semplice questione di cortesia istituzionale, dal momento che a metà pomeriggio non c’era ancora stata richiesta di ricevimento al Quirinale. Il premier ha quindi concordato l’agenda direttamente con il capo dello Stato, al telefono.
CONTE LASCIA per raddoppiare. Punta su un reincarico che certamente arriverà. Ieri, per rassicurarlo nelle ore di esitazione, il segretario del Pd Nicola Zingaretti lo ha definito «il punto di equilibrio più avanzato possibile», il dem Goffredo Bettini «imprescindibile», Loredana De Petris di Leu «indispensabile», i 5 Stelle «unica soluzione». Matteo Renzi non porrà veti. I centristi, dato e non concesso che riescano a formare un gruppo e a parlare quindi con una voce sola, non obietteranno. Le difficoltà inizieranno subito dopo.
Conte parte con un disegno chiaro in mente. Primo, la costituzione di un gruppo al Senato tale da garantirgli una maggioranza di un certo respiro. Il primo obiettivo dovrebbe essere a portata di mano. Il secondo molto meno. Nel gruppo costituendo le new entries si conteranno probabilmente su una mano sola. Secondo obiettivo: non avere bisogno di Renzi e comunque, se proprio costretto a riaprire le porte a chi lo ha sfiduciato, costringerlo a essere «aggiuntivo», anche saccheggiando il gruppo di Iv. Terzo, chiamare, con un appello alla salvezza nazionale, una certa quantità ulteriore di centristi, come Cambiamo di Quagliariello e Romani o l’Udc ma forse anche Fi: non con il traguardo di farli entrare in maggioranza bensì in una commissione sulle riforme che funzionerebbe come rete di protezione. Quarto, modificare il governo il meno possibile.
QUALCHE SOSTITUZIONE nel nuovo esecutivo ci sarà, per esempio quella della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli, Pd, con Andrea Orlando che scalpita, probabilmente anche quella di un paio di altri ministri 5S, con in dirittura di uscita Nunzia Catalfo (Lavoro) e Federico D’Incà (Rapporti con il parlamento). Ma nel complesso Conte mira a un rimpasto, non a un governo davvero nuovo. Se Renzi sarà aggiuntivo, o come il premier preferirebbe di gran lunga se si riuscisse a tenerlo fuori dalla porta dopo avergli prosciugato il gruppo, la missione sarà più facile. In caso contrario le cose si complicheranno e si aprirà un margine di rischio perché la tenuta di Conte dipende tutta dalla saldezza con cui sarà difeso da Pd e 5S. Saldezza che sarà granitica domani ma lo diventerebbe molto meno se la crisi si incagliasse.
MOLTO DIPENDERÀ da come e da con quanta elasticità Conte gestirà una situazione che ha sperato sino all’ultimo di non dover affrontare, Di indecisioni, esitazioni, patemi, consulti e ripensamenti ieri mattina ce ne sono stati in quantità . Al levar del sole Conte non aveva affatto deciso il sofferto passo, anche se la levata di scudi di Luigi Di Maio, domenica, lo aveva lasciato quasi senza alternative. «Il voto su Bonafede è un voto di fiducia», aveva chiarito il ministro degli Esteri. Come dire che la possibilità di sfidare l’aula sacrificando in caso di sconfitta il guardasigilli ma non palazzo Chigi era esclusa. La sola via d’uscita era l’ennesima caccia al responsabile, o almeno a qualche senatore disposto a lasciare l’aula per non affondare Bonafede. Pollice verso. I numeri, invece di aumentare, diminuivano: fermi sotto quota 150. Probabilità altissime di una sconfitta che avrebbe precluso il reincarico dopo le dimissioni rese obbligatorie dalla posizione rigida dei 5S. Ma anche nell’eventualità di una miracolosa salvezza, con meno voti dei 156 incassati la settimana scorsa nel voto di fiducia, il premier avrebbe dovuto lasciare.
CONTE SI CONSULTA al telefono con Zingaretti, poi con i 5S, rudi e sbrigativi: «O prima del voto o dopo ti dovrai dimettere. Meglio prima». Il Pd, che più tardi negherà di aver spinto il premier a dimettersi, diffonde una nota informale definitiva: «Sosteniamo Conte ma i numeri non ci sono». Ma a chi fino all’ultimo gli consigliava di resistere Conte ha replicato con un ulteriore argomento: «Se finisco per apparire attaccato alla poltrona perdiamo anche la credibilità». La scelta ieri è arrivata così, a malincuore. Ora la sorte di Conte dipende anche dal saper affrontare un quadro nuovo senza cercare di renderlo identico a quello di prima.
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