La storia umana che scorre dentro la natura e combatte l’indistinto postmoderno
In versi La raccolta «Poesie del verbo verde» di Giuseppe Sedia, per l’editrice Nulla Die
In versi La raccolta «Poesie del verbo verde» di Giuseppe Sedia, per l’editrice Nulla Die
Il «verbo verde» del titolo di Giuseppe Sedia (Poesie del verbo verde, Nulla die, pp. 56, euro 13), con la sua sinestesia vistosamente allitterata, sembrerebbe far risuonare il celebre squillo con cui sia apre Voyelles di Rimbaud («A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu»), ma non è questa la temperie della raccolta.
FORSE L’ASPETTO più vistoso è l’ampio numero di luoghi da cui l’autore, noto ai lettori del manifesto per le sue corrispondenze dalla Polonia, fa muovere i differenti testi, tanto da disegnare davvero il «planisfero», come enuncia il titolo della tesa prefazione di Tommaso Di Francesco. Si aggiunga che i loro nomi, come di costumi, espressioni culturali e personaggi di ambiti distanti dal nostro sono convocati come dati di conoscenza comune, quindi senza chiarimenti a testo o in nota. È in questo la voce della nuova intellettualità.
In una raccolta tanto sollecita all’autoriflessione da dedicarle tra l’altro le ultime sette poesie, il componimento introduttivo è certamente da prendere sul serio: Sonet verde. Titolo in cui, si noti di passaggio, il metro italiano è indicato con parola slava. Un metro, per così dire, solo all’occhio, perché limitato alla lunghezza e alla disposizione delle quattro strofi, in obbedienza alla ripetuta presa di distanza dalla «rima», ossia da armonia e regolarità ritmica, in quanto orpelli ingannevoli. Le stesse evocazioni letterarie avvertibili non vanno intese come filiazioni, ma piuttosto come materiale da costruzione.
NEL TESTO D’APERTURA, dopo il duplice rifiuto di un approccio estetizzante alla natura («Non sono le ragnatele», «Non i passi nostri sull’erba croccante»), si proclama la decisa scelta per un terreno insieme più basso e fisico («quei profumi pungenti / che una doccia non ha cancellato»). Sonet verde stabilisce subito, per ciò che dice e per il come, tre caratteristiche fondamentali della raccolta: il rifiuto delle forme e dei versi regolari, il rifiuto di uno sguardo elitario e dall’alto, l’uso allegorico della natura. Questa non è osservata nei suoi processi biologici autonomi, né è ambito di lavoro, salvo i richiami generali ai meccanismi di sfruttamento capitalistico. Ciò che davvero interessa Sedia è la storia umana.
Il componimento che mette direttamente a tema la postazione da cui ci si parla è Planty, nome del grande parco di Cracovia, dove l’autore vive. Il qui e ora è per un verso visto come traccia umana e quindi travalicato in direzione del succedersi delle vicende e dei conflitti storici (in questo caso, le guerre e i conflitti che straziano oggi la Polonia e l’Europa), per l’altro come permanenza della vitalità naturale, quindi positiva: «resta ancora verde per un po’ te ne prego!».
IL PASSAGGIO dall’esperienza individuale e privata a una dimensione storica collettiva è senza dubbio l’elemento più fecondo delle Poesie del verbo verde, capace anche di contrastare i rischi dell’indistinto postmoderno insiti nell’impianto generale, perché entra direttamente in attrito con il singolarismo, base delle odierne democrature come la nostra. Può essere una parata militare in Siria a spingere alla descrizione delle stragi di migranti nella «vasca mediterranea», o il gesto quotidiano di togliere il filtro di un infuso dalla tazza a rammentare come neppure il giaguaro incuta timore «nel cuore oscuro degli sfruttatori / nelle braccia avide dei latifondisti». L’ingresso nella pagina degli stermini in corso può avvenire direttamente, come nella stralunata evocazione degli ammazzamenti a distanza con i «drôles drone», concludendo con gelida ironia che «oggi i piloti non aspirano più a volare / ma ricevano medaglie a distanza». Non mancano momenti di gioia familiare, come la tenera poesia sulla nascita del figlio, A Maxime, o giocose, come Ode a un mandarino.
SE IL PROCEDIMENTO allegorico è prevalente, frequenti sono le aspre scorciature analogiche, anche in sede di costruzione argomentativa, in un dettato il cui disegno di ricondurre in un orizzonte di senso i frammenti esperienziali non dubita della forza illocutoria della propria voce, fatto a cui concorre una versificazione asciutta, dov’è la piana organizzazione sintattica a segnare il confine del verso di una poesia civile.
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