La Storia formato «popolare»
Televisione L'Oriana cancella dalla figura di Fallaci le contraddizioni del rapporto col suo tempo come sempre accade nelle letture di Rulli&Petraglia
Televisione L'Oriana cancella dalla figura di Fallaci le contraddizioni del rapporto col suo tempo come sempre accade nelle letture di Rulli&Petraglia
Lasciamo stare il cast, Vittoria Puccini rigida con l’occhione spalancato, o Vinicio Marchioni che il povero Panagoulis lo trasforma nel «tipico» (come i prodotti locali) maschio greco tra il depresso e il sessualmente compulsivo. Lasciamo stare la qualità della regia, peccato perché almeno con Basaglia Marco Turco aveva fatto un buon lavoro, cose che comunque in un servizio pubblico non dovrebbero essere sottovalutate. Anzi.
Ma di peggio nell’Oriana – visto in due giorni – c’è la «lettura» operata da Rulli e Petraglia, autori della sceneggiatura, che scrivono un nuovo capitolo di quella «revisione» della Storia italiana messa in atto tra cinema e televisione. E accordandolo oltretutto all’interpretazione di «popolare» (prevalente oggi nella politica culturale del centrosinistra) che coincide sostanzialmente con un abbassamento di qualità. Tutto questo però si è rivelato indigesto «persino» al pubblico televisivo Rai che infatti ha snobbato quasi subito la fiction in questione.
Oriana Fallaci è certamente una figura complessa, anche faticosa pure se nella fiction appare sempre uguale a se stessa capitare in ogni luogo per caso. Ma finalizzarla a ciò che fu la fine della sua vita, e a partire da questo ricostruirne la biografia verso un’unica direzione, quella della battaglia antimusulmana di La rabbia e l’orgoglio (29 settembre 2001) è quantomeno riduttivo. Se non addirittura un po’ opportunista vista l’aria dei tempi che questo sembra richiedere.
Un articolo importante, certo, ma uno tra i tanti possibili di un cammino che ha molte radici, a cominciare dall’antifascismo fiorentino, e poi la sua lotta per affermarsi donna in un mondo maschile.
Tutto questo però e molto altro nella fiction non c’è. Non c’è nulla sul lavoro da giornalista, sulla questione della donna nell’Italia degli anni Sessanta – pure se lei stessa scrive (Il sesso inutile) che di donne non ama parlare. Nulla sulle contraddizioni di Fallaci (o sulla sua ossessione a provocare) rispetto al proprio tempo, sul Vietnam dove i Vietcong sono rappresentati come terroristi usando paragoni mutuati dal presente e non pensando alla guerra di allora. Sulla Grecia e sulla dittatura, sulle lotte in Italia, sul rapporto con la maternità da cui arriva Lettera a un bambino mai nato, pubblicato nel ’74 (e caposaldo antiabortista) – aveva avuto due aborti spontanei ma certo non perché come nella fiction Panagoulis la tradiva.
A chi è più giovane Fallaci apparirà come una con le unghie rosse sempre perfette anche quando la ritrovano mezza morta all’obitorio di Città del Messico. E però Rulli e Petraglia in quegli anni c’erano eppure non sembrano preoccuparsi di come trasmetterne l’esperienza con un po’ di verità, fuori da strumentalizzazioni o eccessi di semplicismo come quasi sempre accade quando si parla della Storia del nostro Paese (e non solo).
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