Visioni

La storia d’Italia in bilico sulla torre

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Cinema «Patria» di Felice Farina, ispirato al libro di Enrico Deaglio, un operaio e un sindacalista interrogano in una notte presente e passato

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 27 febbraio 2015

Tre uomini sulla torre di una fabbrica. Uno, Salvo (Francesco Pannofino) è salito per protestare contro la trattativa sindacale che manderà tutti a casa. Quella giornata è iniziata proprio male, la macchina lo ha lasciato a piedi, la sua compagna non lo vuole più vedere, e ora ecco che il sindacato china la testa cercando di portarsi a casa un po’ di soldi. Lui siciliano, berlusconiano, amante del calcio non lo sopporta quel «sindacalista di merda» che parla troppo (Roberto Citran): «Quanto vi hanno dato?» gli urla addosso saltandogli al collo. E decide che non ci sta, rabbioso sale in cima alla torre, le tasche piene di schifezze della macchinetta che gli cadono giù, vuole fare casino, vuole la tv che può tutto anche salvarli dal licenziamento. Il sindacalista sale anche lui sulla torre per convincerlo a scendere, per aprirgli gli occhi – «Non vedi che intorno hanno chiuso tutti?» e resta lì.

 

 

 

È un comunista di quelli «rottamabili», in tasca ha ancora il biglietto del treno, Torino-Roma per andare ai funerali di Berlinguer: 1984, una vita (e tanti Pci ) fa. Il padre, anche lui operaio, si è ammazzato quando lo hanno messo in cassa integrazione, e lui il suo primo giorno in fabbrica, a ventiquattro anni era da solo, stavano tutti in piazza a manifestare contro il rapimento di Moro. Poi c’è quel ragazzo che fa il guardiano, lo hanno preso con la legge su disabili, fuma tantissimo, legge Patria di Deaglio, è sempre sintonizzato su strani transistor che riportano frammenti della nostra storia.

 

 

Anche Felice Farina prende come riferimento il libro di Deaglio in cui si ripercorre l’Italia dal ’78 al 2010: bombe, attentati, «misteri», corruzione, aerei inghiottiti dal mare, mafia, politica, P2, terrorismo banchieri corrotti, mandanti e morti ammazzati. Ma anche il calcio, i Mondiali, la televisione e, naturalmente, l’irresistibile ascesa di Berlusconi. Farina però non ne cerca la riduzione narrativa pure se la sua ambizione è quella di ritrovare una cifra da «cinema politico» che questa Storia la riesca a declinare al presente. Così dal luccichìo degli anni Ottanta formato piccolo schermo, su cui si apre il film, si arriva nel grigio della Torino industriale (Fiat) oggi punteggiata da fabbriche chiuse dove la protesta operaia – nel ricatto del lavoro – sembra svanita, ridotta a un gesto solitario, di uno che è «impazzito», senza politica e con l’unica fede nella piazza virtuale della tv. Che distanza dalle immagini dei cortei e delle lotte operaie, di una una speranza (in fondo) ancora possibile.

 

 

Ed è però in quel passato che Farina ricerca le ragioni di questo presente, la sua memoria diventano i repertori – tg, archivi ecc – dove rivediamo l’Italia dell’Italicus e di Ustica, di Mirafiori, di Agnelli e di Romiti, di Berlinguer col suo ultimo comizio, dell’eroina rovesciata a tonnellate a nord coi suoi miliardi, del boom edilizio di Berlusconi, di Tangentopoli e dei processi con Di Pietro alla Prima repubblica, di Sindona e dei boss, del maxi processo di Palermo e dell’assassinio di Falcone e di Borsellino. Come schegge compaiono disturbando le certezze dei due uomini: destra e sinistra, una contrapposizione in cui ognuno di loro prova a piegarle alla propria visione. L’unico che controbatte è il ragazzo lettore di Deaglio (Carlo Giuseppe Gabardini), che sfidando la sua quasi cecità gli ha portato lassù da bere e da mangiare. Alle tirate dei due oppone dati concreti come se fosse un computer.

 

 

Siamo dunque alla frattura tra la labilità della memoria specie se strumentalizzata dagli opportunismi della politica e la sua necessità per capire il vuoto attuale. Le due parti di incontreranno – ma non nella direzione del governo renziano del Job acts piuttosto in quella dei beni comuni – con un finale di qualche speranza. Il fatto è però che questa memoria «necessaria» rischia qui di essere poco Storia; Farina la percorre come una trama gigantesca che ci schiaccia, in un modo totale che è sempre rischioso – a parte che viene compresa solo da chi conosce già lo svolgersi dei fatti. E l’archivio che può essere uno strumento prezioso in questa cornice narrativa finisce per apparire come un unico enorme flusso in cui scompaiono conflitti e contraddizioni.

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