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La storia della Corea nell’enigma del serial killer

La storia della Corea nell’enigma del serial killer

Al cinema Arriva in sala «Memorie di un assassino», opera seconda dell'Oscar Bong Joon-ho, rimasta inedita in Italia per diciassette anni. Ispirato a un fatto di cronaca, da poco risolto grazie all'esame del dna, illumina le contraddizioni della società coreana in un'epoca di passaggio

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 13 febbraio 2020

Pioggia, abiti rossi, una canzone trasmessa alla radio. Quando una piccola città fuori Seul viene funestata da misteriosi omicidi consumati sui corpi di donne seviziate e poi uccise secondo un preciso e atroce rituale, la polizia dispone solo di poche tracce per indagare. Con quegli scarsi indizi e in totale assenza di mezzi, la squadra di detective impegnata sul caso cerca il colpevole come può, affidandosi per lo più all’intuizione e all’istinto. Ma sospetto dopo sospetto, indagato dopo indagato, finisce in un vicolo cieco. Perché l’assassino è un uomo «dal volto banale», uno che si confonde nella folla e potrebbe essere chiunque. Dettaglio non insignificante dal momento che si sta parlando di una storia vera.

In sala dopo diciassette anni sull’onda del clamoroso successo di Parasite, Memorie di un assassino (Memories of a Murder), opera seconda del premio Oscar Bong Joon-ho finora inedita in Italia, si ispira a fatti di cronaca realmente accaduti tra il 1986 e il 1991. In quei sei anni, in un raggio di soli due km, furono dieci le vittime ascritte al primo serial killer coreano. Dietro di sé nessuna traccia eccetto il corpo del reato, agiva e poi sembrava dissolversi nel freddo della notte, mentre in una spirale ascendente di frustrazione e impotenza, le forze dell’ordine erano letteralmente travolte nel caos. Hard-boiled purissimo (e politico) che alle pallottole di Hammet aggiunge anche una sana dose di calci volanti, Memorie di un assassino è anche occasione per osservare una società in trasformazione.

Come La isla minima rifletteva gli umori della Spagna della transizione post-franchista, qui ovviamente al centro è la Corea che proprio negli anni degli omicidi nelle campagne del Gyeonggi, usciva dalla dittatura militare per avviarsi a un lento percorso di modernizzazione democratica ed economica ancora di là da venire. Al tempo la polizia si trova ad agire priva di risorse, impossibilitata a esaminare in casa i campioni biologici, pratica di routine per qualsiasi True Detective o altro esemplare del genere poliziesco made in Usa, né è in grado di isolare una scena del crimine, puntualmente contaminata, ma neppure disdegna l’uso di pratiche violente e poco ortodosse, mirate esclusivamente a estorcere una confessione a ogni costo.

Noir abissale, lo humor che in un primo momento accompagna le dinamiche dell’indagine e degli investigatori, gruppo di maschi in competizione che dalla rivalità naufragano in una ossessione al limite della follia, lascia progressivamente spazio a una disperazione senza catarsi. Il bene e il male, entrambi, esistono ma spesso si confondono e finiscono risucchiati nell’oscurità (il tunnel, il canale di scolo dove viene trovata la prima vittima). A prevalere su tutto è l’illusione, cieca, che porta sempre al fallimento e all’incapacità di accettarlo.

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