La stella nera di David Bowie
Note sparse Con «Blackstar» - in uscita l’8 gennaio - il Duca bianco torna con un progetto dinamico e coinvolgente, insieme a un quartetto scovato in un club newyorchese
Note sparse Con «Blackstar» - in uscita l’8 gennaio - il Duca bianco torna con un progetto dinamico e coinvolgente, insieme a un quartetto scovato in un club newyorchese
Tre anni fa il Duca Bianco si riaffacciava sulla scena, uno squarcio nel buio dopo una decade di assenza dalle sale di incisione. Poche le notizie, un’ultima esibizione live nel 2006 su un palco insieme a Alicia Keys, qualche problema di salute e una passione scoperta per l’alta finanza. L’apparizione nei negozi di The Next Day, il disco del ritorno annunciato a pochi giorni dall’uscita anche all’attonito staff della SonyMusic, era sembrata tanto clamorosa perché imprevista. Un ritorno sull’onda della nostalgia The Next day, con un eco alla trilogia berlinese. Canzoni belle e commoventi, lasciavano però la sensazione – a tratti – di rielaborare un grandioso passato senza andare avanti.
Con Blackstar, una stella nera che campeggia in copertina su sfondo bianco, i buchi neri della galassia – il nuovo album nei negozi e stores digitali l’8 gennaio – l’uomo dai mille volti e dalle altrettante personalità, torna a spiazzare come ai vecchi tempi.
Sette pezzi, lunghissimi, pervasi da una prepotente ansia comunicativa, due dei quali ascoltati negli scorsi mesi: Sue (or in a Season of Crime) appariva già in altra versione nel best del 2014 Nothing has changed, Tis a pity she was a Whore era stata pubblicata come dono ai fan su web.
L’impressione è che Bowie abbia voluto muoversi al di fuori di ogni canone prestabilito. Il suo non è semplice pop, almeno nell’accezione classica del genere, è la sua rielaborazione ottenuta grazie a un manipolo di musicisti jazz «en travesti» capaci di immergersi nelle performance con le tensioni, le dinamiche e le armonie tipiche del rock. Un clima di collaborazione dove anche Bowie fa la sua parte, mettendo la voce – che ha ritrovato agilità e freschezza, quelle note medio alte che solo lui riesce a prendere con credibilità e sicurezza, al pari degli altri strumenti. Mettendola in disparte, se serve, per lasciar spazio a lunghi e elaborati intervalli musicali.
E la band che l’accompagna è straordinaria, scoperta per caso in un jazz club nella grande mela, dove Bowie vive nel 2003 insieme alla moglie, l’ex modella Iman, e il figlio quindicenne. Un quartetto guidato dal sassofonista Donny McCaslin, il batterista Mark Guiliana, il bassista Tim Lefebvre e il tastierista Jason Lindner, perfetto per dar vita al nuovo progetto, le cui coordinate nella mente del genio di Brixton stanno fra la complessità delle partiture dell’ultimo Miles Davis, lo spirito jazz fusion dei Weather Report e Yellowjackets e le scorribande hip hop di Kendrick Lamar.
Chiusi in un piccolo studio newyorchese, il Magic Shop, supervisionati da Tony Visconti, Bowie dà carta bianca a questa hardcore jazz crew. Ascoltare Lazarus – pezzo portante fra l’altro di un parallelo progetto teatrale scritto a quattro mani con il drammaturgo Enda Walsh, che ha debuttato meno di un mese fa Broadway – per credere. Una chitarra quasi spettrale, il beat secco della batteria, un sound che può ricordare il trio britannico degli XX, ma quando entra il sax di Mc Aslin si resta come ipnotizzati e le atmosfere si dilatano completamente: «Sono in paradiso e mi sento libero, libero come un uccello, non ho piu niente da perdere».
Poi il ritornello che riporta alla memoria i ’70, dove si rincorrono chitarre elettriche, il drumming si fa impetuoso e il sax si produce in note dolenti e malinconiche. Eh sì, il sassofono è al centro di tutto. E non è un caso, perché è stato il primo strumento di David quattordicenne, stregato da quel suono tanto da non decidersi se: «diventare un cantante rock’n’roll o John Coltrane». Alternanza di elementi jazz in Sue – qui si riconoscono accostamenti a Sun Ra e a Ornette Coleman – in una versione ancor più incandescente di quella proposta nell’antologico box uscito dodici mesi orsono, con una melodia ricamata sulla voce di Bowie, la sezione fiati sempre in primo piano e una ritmica dagli umori drum’n’bass.
Una rutilante session di quarantadue minuti a cui prende parte il chitarrista Ben Molder e in due brani anche il fondatore degli Lcd Soundsystem James Murphy alle percussioni, uno dei quali è Tis a Pity she was a Whore dal furioso incedere ritmico. Otto minuti di immersioni in una danza quasi tribale, echi di hip hop e un titolo ispirato da una commedia del tardo settecento, scritta dal drammaturgo inglese John Ford. Tanti e curiosi riferimenti nelle liriche, Girl Loves Me – ad esempio – adotta un tipo di argot utilizzato intorno alla metà degli anni ’60 dalla comunità gay londinese.
Ha ragione Tony Visconti in un’intervista rilasciata a Mojo: «Bowie ha voluto musicisti jazz per suonare il rock. Avere ragazzi jazz che suonano rock vuol dire capovolgere tutto. In questo disco abbiamo messo qualsiasi cosa». Qualsiasi cosa, come trasformare l’epica ballata conclusiva, I Can’t Give Everything away, in una confessione autobiografica: «Parlare tanto non significa dire cose sensate», recita nel brano il Duca sibillino e ironico.
E se deve proprio deve confidarci i suoi timori (e tormenti) sul destino della razza umana, utilizza un video. I dieci minuti del corto che accompagna Blackstar – anche colonna sonora di una serie The Last Panthers, creata da Jack Thorne – dove veste i panni di un profeta confinato su un pianeta da incubo, sono quasi una metafora dell’uomo contemporaneo, perduto e senza meta. Un fosco finale che ci accompagna verso la tragedia.
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