La speranza è l’ultima a morire
Scaffale «Responsabilità e speranza» di Eugenio Borgna per Einaudi. Una disamina dei desideri, le necessità e la relazione fra passione e ragione
Scaffale «Responsabilità e speranza» di Eugenio Borgna per Einaudi. Una disamina dei desideri, le necessità e la relazione fra passione e ragione
L’ultimo libro di Eugenio Borgna – Responsabilità e speranza, pp. 104 euro 6,99, Einaudi – prende le mosse dalla parole che pronunciamo, «che sono talora inconsistenti e volubili, come farfalle che sfrecciano nell’azzurro del cielo, affascinandoci e straziandoci con i loro colori, la loro ebbrezza e la loro futilità», ma di cui siamo responsabili, perché possono arrecare danni immani. E siamo responsabili non solo di quelle che diciamo, ma anche delle parole e dei gesti mancati. Talvolta le parole che sembrano più futili sono poste al servizio della costruzione di un progetto immenso.
Il punto fondamentale del libro è la ineliminabile presenza della speranza finanche nei grandi pessimisti che Borgna passa in rassegna con pennellate di enorme impatto. Non si tratta delle speranze minute, dei desideri banali che occupano a intermittenza tante delle nostre giornate più vuote, ma di una responsabilità, nella stesura di opere che ci spalancano porte insospettate sul nostro stesso mondo, che non può non essere sorretta dalla speranza come sguardo rivolto al futuro.
La speranza per Borgna è viva pur negli aspiranti suicidi, e lo esemplifica nelle parole al tempo stesso oscure e scintillanti di Kafka: «Un primo indizio che cominciamo a capire è il desiderio della morte. Questa vita ci sembra insopportabile, un’altra irraggiungibile.
Non ci si vergogna più di voler morire; si prega di venir trasferiti dalla vecchia cella, che odiamo, in una nuova, che dobbiamo ancora imparare a odiare. C’entra anche un briciolo di fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: ‘Costui non rinchiudetelo più. Ora viene da me’». O ancora, nelle parole scritte da Baudelaire prima di tentare il suicidio: «Mi uccido perché mi credo immortale, e perché spero».
Le incursioni nella «follia come sorella sfortunata della poesia», così come l’aveva definita Brentano, sono feconde perché è proprio la nostra parte meno radicata, meno cementificata in un ruolo quella che ci permette di lanciare ponti e di stabilire, attraverso le relazioni che imbastiamo con gli altri, una relazione più vivida e significativa con le parti di noi che restavano inespresse. Nelle parole di Leopardi: «Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione, fare che il dovere, la virtù e l’eroismo ecc. diventino passione».
In questo tempo intessuto di distrazione incessante e di focalizzazione sul momento presente, di disattenzione per gli altri e di fastidio nei confronti di chi bussa alle nostre porte, forse proprio gli autori più amari sono in grado di farci riannodare quel filo essenziale che lega la responsabilità (per il nostro pianeta, per i nostri nipoti, per altri esseri umani che muoiono di fame e di stenti) alla speranza come trascendenza delle nostre quotidiane miserie morali.
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