«Vedi quest’alga? È piccola. Insignificante. Una creatura senza sentimenti. Eppure anche lei ha voglia di vivere». Lui si chiama Matsuyama Kaze e questa breve immagine la dedica a Kiku, una bambina con cui condivide la strada per Osaka. Kaze è il protagonista del romanzo Il ritorno del ronin (Marcos y Marcos, pp. 253, euro 18, traduzione di Eugenio Manuelli) dello scrittore di origini nipponiche Dale Furutani che racconta la storia di un samurai senza padrone, un ronin appunto, cosiddetto «uomo onda», senza radici, né impiego e né reddito stabile, che nella penna delicata e tagliente dell’autore ha mantenuto una promessa e la vuole portare a termine, conducendo Kiku, una ragazzina di dieci anni appena liberata da un bordello minorile, verso una vita praticabile.

PRIMA DI TRASFERIRSI alle Hawaii nella seconda metà degli anni Quaranta, la famiglia di Furutani abitava nell’isola di Oshima, a sud di Hiroshima; viste le condizioni di totatel precarietà economica, il piccolo Dale viene adottato all’età di cinque anni e da allora vive negli Stati Uniti; è qui che si forma, si laurea e fa i primi esperimenti letterari. «Quando ho deciso di ambientare i miei libri nel Giappone antico – ci spiega Furutani – ho pensato di potermi immergere nella profondità delle mie radici, è vero che alcune pratiche non sono più in uso come per esempio uccidere qualcuno perché ti ha offeso, tuttavia ne sopravvivono altre, penso alla gentilezza.
Sono qualità che interrogano il mondo e l’umanità anche oggi».

Storicamente ci troviamo nel 1603, ovvero tre anni dopo la battaglia di Sekigahara e all’inizio del periodo Edo (durato poi fino al 1868). Anche Kaze, come moltissimi altri che avevano cercato inutilmente di contrastare il tentativo del clan Tokugawa di dominare il Giappone, perde il suo ruolo sociale e diventa un viandante che, lasciatosi alle spalle violenza e risentimento (come accade nella trilogia precedente che narra le vicende di Kaze, Agguato all’incrocio, Vendetta al palazzo di giada e A morte lo shogun, sempre editi in Italia da Marcos y Marcos), mostra l’esigenza spirituale e di conoscenza della realtà attraverso la relazione con la giovane Kiku. «Rispetto alla trilogia, Il ritorno del ronin è diverso, sia da un punto di vista meccanico che psicologico. Intanto perché Kaze deve prendersi cura di una bambina e dunque se ne assume la piena responsabilità anche comportamentale. Lui evolve, aumentando la sua parte riflessiva, e se nello sfondo storico in cui è radicato si poteva praticare la vendetta che rispondeva più o meno alla legge del taglione, abbandona questo aspetto più sanguinario per tirare le fila di qualcosa che io stesso ho attraversato in termini di autoriflessione durante la pandemia, mutando i miei paradigmi personali».

In questa direzione il lavoro del ronin è quello di iniziare Kiku, e Ranocchio, un altro ragazzino che si aggiunge al loro cammino, alla disciplina della spada: «la bambina ha un carattere serio e saggio che le deriva dagli abusi reiterati, arriva così all’apprendimento, certo a soli dieci anni ma avendo attraversato molte più vite di un adulto.
Ranocchio controbilancia questa gravità, esprimendo aspetti ludici che talvolta rasentano il ridicolo; li ho immaginati come due aspetti della prima giovinezza».

PRECISA FURUTANI che «la spada per loro non è solo uno strumento di autodifesa, affonda in un simbolico culturale e religioso e ha elementi che riguardano il sacro e il divino come indicano le stesse insegne imperiali, di giada, specchio e spada. Kaze può insegnare a Kiku quest’arte, che ha anche un aspetto meditativo, perché appartiene a una famiglia di guerrieri.
Altro discorso per l’insegnamento nei confronti del ragazzo, Ranocchio; appartenendo alla classe contadina era proibito possedere una spada. È molto importante però per Kaze contravvenire a queste regole, sia pure con l’ammonimento una volta maneggiata bene la spada, si ricordino di usarla solo in caso di estremo bisogno».

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(si ringrazia per la collaborazione Silvia Viganò)