Dedicare un festival della filosofia alla gloria produce sottili ambivalenze. C’è l’aspetto del contenuto che apre la strada verso concetti come il thymosdi Platone, la magnanimità di Aristotele, la teoria dell’onore di Tommaso, la prorompenza del Principe di Machiavelli, l’ambizione di Guicciardini, il riconoscimento in Hegel o il potere carismatico di Weber. Argomenti che verranno snocciolati nelle «lectio magistralis» dei filosofi invitati, non nuovi alla partecipazione ad un evento come quello di Modena, Carpi e Sassulo giunto alla quattordicesima edizione. Lo attesta anche il nutrito pacchetto di anticipazioni pubblicate durante l’ultima settimana su tutti i quotidiani, compreso il nostro.
E poi c’è il format dell’evento. I filosofi che parleranno nelle piazze di Modena, Carpi o Sassuolo mostreranno il loro corpo, daranno voce alla loro parola esperta e profonda, celebrando la gloria del loro nome. I festival della filosofia, come quelli dedicati al giornalismo, all’economia o alla scienza non servono solo a presentare un libro, anche se possono rientrare in una filiera editoriale composta da Tv, radio, giornali e le più modeste presentazioni in una libreria. Servono a qualcosa di più complesso: a celebrare la rinomanza di un «autore», o di una «firma», come si dice nel gergo editoriale o giornalistico. A riconoscere in quel corpo, o in quella voce che parla, il nome stampato sulla copertina di un libro o quello letto distrattamente in testa alle colonne di un quotidiano. A scorgere nello splendore di un nome – altra caratteristica della gloria – il profilo «normale» di un uomo o di una donna come tanti.
L’esercizio della rinomanza non è solo la manifestazione del narcisismo. È un lavoro. Perché esporsi in pubblico, dicendo quel nome che voi conoscete corrisponde a questa persona, non è un esercizio semplice. Alla fine ci si abitua, si diventa professionisti di riti onestamente mondani come l’esposizione di idee davanti a un pubblico che desidera ascoltarle. Per chi lo vuole, è giusto ascoltare chi ha qualcosa da dire, dopo avere scritto un libro, realizzato un’inchiesta o una ricerca importante.
È il format a modificare il sottile piacere dell’ascoltare, del vedere o documentarsi, del farsi un’idea.Perchè risponde ad una logica della serialità, come le serie Tv dove ci sono i personaggi preferiti. Accade anche nei festival dove c’è sempre un filosofo, un attore/attrice, un giornalista preferito. E poi c’è l’aspetto della fiction: il panel prestigioso dei relatori viene presentato, e come tale assunto, come il meglio che quella disciplina può offrire in un dato momento. Come una All Star nel basket o la partita del cuore nel calcio. È sempre una questione di prestigio, di rinomanza, per attrarre un pubblico, o per inventarsene uno su misura.
Dedicare un festival filosofico alla gloria è come invitare un «evento» culturale a riflettere su se stesso. Anche perché i confini con la vanagloria sono sottili, e l’agenda delle lezioni previste a Modena lo mostra ampiamente. Nel terzo libro dell’Etica Spinoza ha citato Cicerone. Per lui i «migliori» sono più di altri guidati dalla ricerca della gloria. Di tale fascino sono vittime i filosofi che mettono il nome sui libri che invitano a disprezzare la gloria. Così facendo smentiscono il loro stesso biasimo e firmano un libro che finirà per coltivare il generale desiderio di essere rinomati. Si può ottenere un riconoscimento anche ammonendo sui rischi dell’ambizione, da Spinoza definita cupidità immoderata, che porta ad essere visibili o a lavorare per esserlo.
In alternativa si potrebbe invocare la tradizione epicurea che invitata a vivere nascosti, o appartati (làthe biòsas). Un motto adottato dallo stesso Spinoza nel suo emblema: la rosa selvatica accompagnata dall’ammonimento latino «Caute!». La rinomanza produce nemici. E Spinoza, il più mite tra i filosofi, ne conobbe tanti: dalla comunità ebraica che lo espulse per le idee sovversive su Dio, alla Chiesa riformata d’Olanda che non gradiva la sua lettura della Bibbia.
C’è tuttavia una positività nel perseguire l’ambizione. Quando la gloria non corrisponde ad uno scopo personale, o religioso (la «gloria di Dio»), ma ad una passione collettiva. Il desiderio di fare il nostro bene, facendo il bene altrui. Unire gli uomini in un’amicizia politica. Soddisfare l’utile individuale a condizione di produrre una potenza comune. Ci sarebbe da gloriarsi di un’impresa che costruisce l’eternità sulla terra. Chi è animato da un simile anelito è virtuoso perché non intende suscitare l’ammirazione (e l’invidia) per una dottrina che porta il suo nome. Vuole praticare la gloria insieme agli altri. Quella dottrina la chiamavano comunismo. Oggi non è un’impresa che si costruisce in un format.