Una donna gira per le sale di un museo, per le strade di Roma, entra in albergo, beve qualcosa e s’addormenta: così il film proiettato sul sipario del Teatro dell’opera di Roma, in scena La sonnambula di Vincenzo Bellini. Le sequenze sono accompagnate all’inizio da un totale silenzio, poi si sovrappongono all’introduzione musicale con il coro dei cittadini del borgo svizzero dove si svolge la vicenda. La figura della donna in diverse pose è accostata a dipinti famosi – tra cui la Fornarina di Raffaello – e tornerà durante tutta la rappresentazione.

UNA GRANDE SALA, con una grande tavola in mezzo al palcoscenico, che si fa passerella dei personaggi, è il luogo non luogo della scena. Tutti dormono, almeno per un po’, su qualche letto. Si innalza la bandiera svizzera sulla tavola che si fa palco paesano, e all’attacco delle arie – alcune tra le più belle del melodramma italiano – compare sullo sfondo a caratteri cubitali una scritta: «Performance n. 1» e poi 2 e poi 3 e così via. Ma che c’entra tutto questo con La sonnambula? Niente. Il melodramma di Bellini è il pretesto per un’improvvisazione teatrale, maniera distorta d’intendere la drammaturgia moderna che sì, a volte sembra discostarsi dal testo, ma per approfondirlo, per scovarne significati non immediatamente palesi, non per ignorarlo. Qui, invece, ciò che disorienta è che tra la rappresentazione e l’opera il rapporto non c’è, o comunque non lo si capisce, e i «buu» che alla fine il pubblico lancia ai due registi, Jean-Philippe Clarace e Olivier Deloeuil, e al «laboratorio» scenografico Le Lab, sono giustificati. Se c’è un elemento che rende difficile il teatro di Bellini è la sua grande semplicità, la sua immediata evidenza, che vanno restituite sulla scena, proprio perché segnalano una discesa al nodo essenziale dell’azione, che si esprime nella pura nudità del canto.

Fabrizio della Seta ha dedicato un libro (Bellini, Il Saggiatore) a dimostrare la funzione drammaturgica di questo tipo di canto: la melodia belliniana è tutta indirizzata a mostrare i nodi di tensione tra i personaggi. Esempio perfetto, l’aria finale dell’opera: «Ah! non credea mirarti». All’ascolto del dolore di Amina, il di lei promesso Elvino, che l’ha ripudiata credendola fedifraga, commenta straziato: «Io più non reggo». La melodia della sua aria non è altra da quella di Amina, ma la completa. Come esprimere meglio l’empatia che unisce i loro animi?

PER FORTUNA, ciò che la scena ignora, la realizzazione musicale lo restituisce. Francesco Lanzillotta, il direttore, sa che l’orchestra belliniana non è quella di Berlioz, ma nemmeno è un semplice accompagnamento strumentale delle voci, che vanno invece lasciate esprimersi in rilievo. Lanzillotta le sostiene, anzi, le segue con timbri inusitati, e consente così anche alle figure di accompagnamento di acquisire lo spessore espressivo che spetta loro. Svetta su tutti la Amina di Lisette Oropesa, precisa, morbidissima, e, soprattutto, fluidamente naturale, come se il canto fosse il suo modo spontaneo di esprimersi. Roberto Tagliavini, nella parte del Conte Rodolfo, realizza anche lui questo miracolo di fluidità e naturalezza. Un po’ meno immediata la Lisa di Francesca Benitez. Ma tutti vengono comunque trascinati da questa onda di morbido canto, anche la Teresa interpretata da Monica Bacelli, che presta la sua bella voce alla madre di Amina.