La solitudine dell’attore
Teatro Il suicidio di Pino Misiti e di Monica Samassa appare con il segno della crisi profonda che vive il mondo teatrale, economica ma più dolorosamente di idee e di solidarietà
Teatro Il suicidio di Pino Misiti e di Monica Samassa appare con il segno della crisi profonda che vive il mondo teatrale, economica ma più dolorosamente di idee e di solidarietà
Ci sono dei giorni in cui, per pura e casuale coincidenza di date, un ambiente o uno spicchio di società, si trova davanti a fatti con i quali è impossibile non fare i conti. Come succede ora al teatro, che mentre si trova davanti a sollecitazioni di forzato ottimismo, deve constatare invece che anche il proprio mondo, considerato generalmente «dorato» e degno di invidia da chi ne sta fuori, può vivere episodi crudeli e luttuosi come neanche nelle più rinomate tragedie ateniesi.
Poche settimane fa, un giovane attore, Raphael Schumacher, è morto strangolato durante una performance in cui quel gesto estremo avrebbe dovuto essere una pura «rappresentazione». Che abbia sbagliato i calcoli, o che sia stata una scelta volontaria, non si saprà mai con certezza, ma il rapporto tra realtà e finzione, e i limiti illusori di questa rispetto a quella, ha sollevato un vivace quanto teorico e ozioso dibattito durante i lunghi giorni del coma.
Ora la parola morte torna a segnare violentemente le scene italiane. Quasi lo stesso giorno , un attore Pino Misiti, e una attrice, Monica Samassa, si sono tolti la vita. Lui, formatosi all’Accademia Silvio D’Amico, non trovava sufficienti occasioni di lavoro, usufruiva solo di un piccolo contributo dalla Fondazione Piccolomini (dove ieri è stato ricordato e salutato dagli antichi colleghi) ma si era in qualche modo appartato dal giro. Una tragedia anche della miseria, è stato scritto, forse giustamente, ma che riporta alla sorprendente esiguità media delle pensioni dello spettacolo (per non parlare poi della cosiddetta legge Bacchelli, il cui pur modesto contributo viene normalmente elargito solo agli artisti di penna o di pennello, quasi mai a quelli che si esprimono con l’intero proprio corpo).
Monica Samassa invece stava provando il nuovo spettacolo di Fausto Paravidino, che pochi anni fa le aveva offerto il ruolo straordinario della madre dello stesso autore, durante il percorso che l’avrebbe condotta alla morte. Una interpretazione meravigliosa, fuori di ogni retorica e di ogni forzatura, che l’ha fatta conoscere ed apprezzare come vera e grande attrice anche da chi non aveva avuto in precedenza occasione di ammirarla. E spinto Nanni Moretti a volerla in una intensa apparizione nel suo ultimo film. Mentre i più attenti la ricordano in poetici spettacoli con Giuseppe Battiston.
Misiti e Samassa, lui in solitudine, lei al termine delle prove nel teatro di Longiano in Romagna, hanno appeso ad una corda crudele il proprio destino. Non sappiamo i motivi precisi che hanno portato ciascuno a quel gesto, ma la scelta di quella «rappresentazione» estrema non può lasciare indifferenti coloro che pure sono abituati ad assistere ai gesti più estremi «sotto le luci della ribalta».
La scelta della morte, da parte di chi per mestiere padroneggia l’arte e le tecniche del rappresentare, rompe ogni regola del gioco. Scopre non solo un groviglio di problemi nella vita di quelle persone, al cui rispetto siamo tutti tenuti, ma anche dei cigolii sinistri, o magari un baratro, in un sistema teatrale dove si impara per tutta la vita a recitare insieme, per rimanere poi spietatamente soli.
Non soli nel privato, cosa che dipende dalle scelte e dal carattere di ognuno, ma soli nelle esperienze e nelle fatiche di un ambiente. Dove una parte o anche una singola posa viene rincorsa e sognata e sudata in assoluta solitudine, appesi ad un casting o a un «produttore» (con rispetto parlando) che conceda quella prova di sopravvivenza.
É così da sempre in Italia. Hollywood ha tratto sull’argomento film spumeggianti e irresistibili, dove il sorriso stempera in fretta la lacrima. In Francia, pochissimi anni fa, la solidarietà di categoria ha mostrato di funzionare ancora alla grande: con lo sciopero degli intermittents, i lavoratori hanno costretto a fermarsi niente meno che il Festival d’Avignone, la kermesse estiva che, come il Festival del cinema di Cannes rappresenta una sorta di sacrario nazionale per i francesi, quasi un simbolo di identità per il pubblico, neanche paragonabile a quello che significa da noi la Biennale di Venezia.
Ora, dentro la grande crisi che stiamo vivendo ormai da parecchi anni, il teatro va consumando una gelida stagione di sempre maggiori ristrettezze. Innanzitutto economiche certo, ma anche, e quasi più dolorosamente, di idee, di progetti, di invenzioni, di coraggio. E soprattutto di solidarietà.
Tutto appare stagnante, le finanze come i rapporti tra le persone che fanno lo stesso lavoro. Di fronte all’eterno sorriso ottimista del ministro della cultura, i teatranti sanno opporre solo le singole lamentazioni. Ognuno in nome di se stesso, o dell’istituzione che si trovano a presiedere e dirigere (quasi sempre per nomina politica, quasi mai per titoli e conoscenza), senza porsi neppure il problema della collettività teatrale. La crisi ha picchiato duro su questo fondamentale baluardo culturale, e l’attuale riforma decretata da Franceschini ha complicato non poco la situazione che diceva di voler modernizzare e (dio li perdoni) moralizzare. Gli spazi sembrano essersi ulteriormente ristretti, mentre sono cresciuti parametri, graduatorie e criteri di selezione (tutti governati dall’ormai proverbiale «algoritmo», sempre a sproposito presente e vincolante).
Sono piovuti i ricorsi legali, unico evidente bacino di riunificazione di soggetti, e arriveranno sicuramente aggiustamenti ragionevoli. Per soddisfare e «premiare» tutti insieme, tutti uniti, e quindi in fondo nessuno. O in maniera non democratica, come scandalosamente diceva don Milani di una scuola solo formalmente «egualitaria».
Ma non si è visto davvero nessuno che, fuori da parate unanimiste, sulla protesta ci abbia messo consapevolmente la propria faccia (le eccezioni si contano sulle dita di una mano, Elio De Capitani in testa). Tutto sembra risolversi in un burocratico unanimismo, che unisce direttori e comparse, tecnici e amministratori delegati, contenti di questa gelatinosa e inestricabile «solidarietà». Puro gioco di apparenza, come sanno i bambini allo specchio.
Il paragone sembrerà passatista e «fuori moda» al nostro futuribile presidente del consiglio e ai suoi «modernissimi» divulgatori, ma per fare gli esempi più vistosi, i lavoratori dell’Alcoa, o dell’Illva, o Electrolux o Saeco o adesso Meridiana, sono ben riusciti a farsi riconoscere dall’intero paese, e a far capire a tutti le proprie ragioni. Nello spettacolo, solo sorrisi e sospiri. Ma poi è’ impressionante sentire, a quattr’occhi, l’attrice famosa e ben riconosciuta, lamentarsi della impossibilità attuale di far nulla di sensato se non apparire in qualche commediola; oppure giovani agguerriti e preparati, già bravissimi, costretti ad aspettare fatalisticamente la volubile elargizione di qualche bavoso factotum dei tempi andati. Perfino dal ministero, e dalla sua nuova generazione di dirigenti, come è emerso qualche giorno fa da un incontro in un teatro romano, sarebbe gradita una elaborazione seria di richieste, mediate e non «generaliste» o vanamente parolaie.
La parola, e la decisione, restano ancora una volta agli artisti, alla loro capacità di elaborazione e di coraggio nel portarla avanti. Senza rinchiudersi nel conformismo piccoloborghese del sacrificio o della sfortuna. E soprattutto per non sentirsi, in questo spaesamento assurdo di ruoli, di valori e di bisogni, ancora una volta soli. Maledettamente soli. Una solitudine tanto crudele, da risultare a volte anche mortale.
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