Cultura

La solitudine del traditore

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Intervista Un incontro con lo scrittore Sorj Chalandon dopo il suo ultimo romanzo «Chiederò perdono ai sogni», dedicato alla figura di Denis Donaldson, eroe dei ragazzini dei ghetti cattolici di Belfast, che però ha voltato le spalle alla sua causa

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 2 gennaio 2015

«Ora che tutto è venuto allo scoperto, saranno loro a parlare al mio posto. L’Ira, i Britannici, la mia famiglia, persone a me vicine e giornalisti che non mi hanno nemmeno mai incontrato. Alcuni oseranno spiegarvi perché e per come sono arrivato a tradire. Forse su di me scriveranno dei libri, e questo mi manda in bestia. Non ascoltate nulla di quel che diranno. Non fidatevi dei miei nemici, e ancor meno dei miei amici. Fuggite quelli che sosterranno di avermi conosciuto. Nessuno è stato dentro la mia testa, nessuno. Se oggi parlo è perché sono l’unico a poter dire la verità. Perché dopo di me spero nel silenzio».
Tyrone Meehan è un veterano della causa repubblicana, un eroe per i ragazzini dei ghetti cattolici di Belfast e di tutta l’Irlanda del Nord. Nella sua lunga vita ha conosciuto la prigione e la violenza dell’occupazione britannica, ha combattuto, ucciso, passando dalla guerriglia di strada alle brigate dell’Irish Republican Army. Ma Tyrone è anche altro. Proprio durante uno scontro a fuoco con i soldati di Londra è accaduto qualcosa che lo ha cambiato per sempre. Che lo ha spinto, paradossalmente, a tradire i suoi compagni e la sua stessa famiglia pur di non disonorare la causa a cui ha dedicato la sua intera esistenza.
In Chiederò perdono ai sogni (Keller, pp. 288, euro 16,50) lo scrittore francese Sorj Chalandon, militante della Gauche prolétarienne all’inizio degli anni Settanta, poi a lungo inviato di Libération sui fronti di guerra di tutto il mondo e approdato di recente al Canard enchaîné, ricostruisce la vicenda di Denis Donaldson, nel romanzo ribattezzato Tyrone Meehan, a lungo tra i maggiori leader dello Sinn Féin e dell’Ira che nel 2005 ammise pubblicamente di essere stato un confidente dell’intelligence britannica e fu abbattutto l’anno successivo da un commando di irriducibili contrari al processo di pace in atto nella regione. Nel corso dei suoi lunghi soggiorni a Belfast, Chalandon aveva stretto con l’esponente repubblicano un’amicizia profonda, da qui la necessità di raccontare la storia di un «tradimento» che sentiva di aver subito in prima persona.
Prima ancora di essere uno straordinario documento sulla storia del conflitto nordirlandese, ripercorso fin dalle sue origini attraverso la biografia del protagonista, Chiederò perdono ai sogni è però un romanzo potente che alterna entusiasmo e malinconia, introspezione e racconto corale, elaborazione del mito e lucido sguardo sulla realtà sociale. Un romanzo che conferma le doti narrative di Sorj Chalandon, purtroppo poco noto nel nostro paese – nonostante sia l’autore di una mezza dozzina di opere che giocano con la Storia e le sue contraddizioni – e l’estremo acume dell’editore trentino Keller che vanta nel proprio catalogo alcune delle voci più stimolanti della nuova letteratura europea.
Questo romanzo nasce da quella che si può a ragione definire come la sua lunga storia d’amore con l’Irlanda del Nord: quando ha avuto inizio?
La prima volta che mi sono recato in Irlanda del Nord come inviato di Libération era il 1977. Conoscevo e amavo già l’Irlanda della musica, dei pub, della birra e della letteratura, ma fu solo in quel momento, a 25 anni, che scoprii l’altra faccia di quella terra, qualcosa che fino ad allora non avevo mai preso in considerazione: malgrado gli inglesi definissero tutto ciò semplicemente come «troubles», lì era una vera e propria guerra che si stava combattendo. Tutto ciò, a un’ora e mezza di aereo da Parigi e senza che in Francia, come nel resto d’Europa, si fosse consapevoli di quanto stava avvenendo. Per me fu una sorta di illuminazione.
Mettendo insieme passione e lavoro, col tempo lei è poi diventato uno dei giornalisti più informati e «interni» alle vicende nordirlandesi. Cosa è accaduto per ricoprire questo ruolo?
Sono arrivato a fare il giornalista quasi per caso, perciò ho cercato di imparare il mestiere sul campo, osservando direttamente le cose, senza accontentarmi delle «veline» ufficiali. Grazie alle amicizie che ho stretto nel campo repubblicano, i miei contatti nello Sinn Féin e nell’Ira, sono stato spesso in «prima linea», ho potuto raccontare ciò che avveniva senza alcun filtro. E ho provato a fare lo stesso anche con gli unionisti e con forze di occupazione inglesi. È così che, sia io che il mio giornale, ci siamo conquistati una certa credibilità a Belfast: è stato proprio dalle colonne di Libération che l’Ira ha annunciato nel 1994 per la prima volta che deponeva le armi, dando inizio a quel processo di pace che è ancora in corso.
In questi anni di «immersione» nella realtà irlandese sono nati dei legami forti, delle amicizie vere. Come quella con Denis. Cosa ha provato scoprendo che il suo migliore amico aveva «tradito» la causa che era diventata un po’ anche la sua?
È stato come se in me si fosse aperta una ferita. Io e Denis ci frequentavamo da decenni anche con le nostre famiglie, eravamo amici e lui era di casa da me a Parigi, come io da lui a Belfast: mi fidavo ciecamente di lui. Perciò mi sono sentito tradito. Non come compagno di lotta o come irlandese d’adozione – mi considero così – ma come amico. Prima che politico, il tradimento che mi faceva male riguardava l’intimità della nostra relazione.
Eppure ha sentito il bisogno di narrare proprio questa storia. Lo ha fatto con un primo libro, «Il mio traditore» (Mondadori, 2009) nel quale l’io narrante è un francese che scopre il tradimento dell’amico e, ora, con questo nuovo romanzo in cui è lo stesso esponente dell’Ira che si racconta. Perché questa scelta?
Non me la sentivo di seguire questa vicenda da giornalista, ero troppo coinvolto. Scrivere un romanzo significa per molti versi mettersi una maschera, prendere una certa distanza, ma allo stesso tempo permette anche di guardarci dentro emotivamente, con maggiore profondità. Per questo ho sentito che la storia di Denis, cui nel romanzo ho dato il nome di Tyrone Meehan, potevo e forse dovevo esplicitarla solo in questo modo. Ho dapprima descritto ciò che avevo provato, il dolore di sentirmi tradito. Quindi mi sono reso conto che dovevo dare voce a Denis, offrirgli l’opportunità di spiegare ciò che aveva fatto. Solo questo avrebbe potuto ricongiungermi in qualche modo con lui, con l’amico che non volevo perdere, malgrado tutto.
In «Chiederò perdono ai sogni», Tyrone Meehan racconta il proprio coinvolgimento nelle fila repubblicane, per poi condurci verso il drammatico epilogo della sua vita. Il romanzo le ha fatto ritrovare l’amico perduto?
Sì, almeno in parte. Avevo bisogno che fosse lui a spiegare la sua scelta di tradire, di mettere a rischio tutto ciò in cui aveva creduto, per molti versi la sua intera esistenza. Ai lettori chiedo di dividere con me l’enorme sofferenza che ho provato io, i silenzi di Denis/ Tyrone le sue menzogne, la sua solitudine. Rispetto alla realtà, il protagonista del libro è solo un po’ più vecchio; per il resto, è tutto vero, veri i personaggi che incontra, le vicende del conflitto in cui è coinvolto, le prigioni in cui gli inglesi l’hanno tenuto a lungo recluso. Tyrone Meehan non è mai esistito, ma in realtà lui è l’ombra di Denis Donaldson.
Raccontando il conflitto attraverso la figura controversa di un traditore, lei sembra restituire umanità a una storia spesso celebrata in termini epici. Come è stato accolto il romanzo a Belfast?
Uno dei principali giornali irlandesi, l’Irish Times, ha affermato che solo uno «straniero» avrebbe potuto affrontare un tema simile senza condizionamenti. Il romanzo è stato apprezzato anche negli ambienti repubblicani e accolto bene dall’opinione pubblica. Personalmente, però, non pensavo a questo quando l’ho scritto. Pensavo soltanto a Denis e a come era andata la sua vita. Volevo far conoscere a tutti la storia di quest’uomo considerato un eroe, che però dentro di sé era consapevole di essere tutt’altro. Volevo che tutto fosse il più possibile vicino al vero. Credo di esserci riuscito. Un giorno, sua moglie mi ha detto: «Non riesco a leggere il tuo libro perché se anche hai cambiato alcuni fatti e date, so che c’è Denis in tutte le pagine, che lui è dappertutto e che questa è la sua storia».

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