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La solitudine del lavoratore

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Scenari Ripetitivi, frammentati, spesso dequalificati: sono i lavori che svolgono sempre più persone. Bisogna rimettere la qualità nell’agenda politica

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 22 agosto 2014

Nell’attuale, drammatica, impossibilità per molti di trovare una qualsivoglia fonte di reddito, è comprensibile che le modalità e i contenuti del lavoro rimangano in secondo piano. Vi sono eccezioni, ad esempio il recente Lavoro e libertà, nel quale Stefano Fassina, richiamando Bruno Trentin, riafferma che qualità e dignità del lavoro sono elemento imprescindibile della democrazia. La tesi prevalente è, però, che la creazione e il mantenimento di posti di lavoro passi inevitabilmente per l’ulteriore svalutazione del lavoro. Dunque, si perseguono attivamente la riduzione delle tutele, la precarizzazione dei contratti, la flessibilizzazione dell’uso della manodopera, la riduzione dei salari, la riaffermazione del totale dominio dell’impresa sui propri occupati. La sola possibilità di fuga offerta è quella individuale, se si è così “choosy” da pretendere qualcosa di più dal proprio lavoro, mentre coloro che provano ad opporsi collettivamente sono accusati di far fuggire le imprese e distruggere l’economia. È così che il lavoro diventa alienazione, sia per quelli che non ce l’hanno, privati di quello che è unanimemente considerato lo strumento primario di inclusione sociale, sia per quelli che ce l’hanno, costretti ad aggrapparsi ad una qualsivoglia attività, spesso di pura sopravvivenza, che tende a fagocitare l’intera vita.
Eppure la vulgata continua a decantare le umane sorti e progressive di un mondo nel quale qualificazione e progresso tecnologico interagiscono, liberando l’uomo dalla fatica e, al contempo, riempendo di contenuto la sua attività. Ma la realtà è che moltissimi lavorano sempre più e in condizioni di lavoro peggiori. A un grappolo di lavori altamente qualificati, creativi e adeguatamente remunerati che si creano (ma anche, a volte, velocemente si distruggono), si contrappone una massa di lavori ripetitivi, frammentati, spesso dequalificati. Certo, il lavoratore non è più un’appendice della macchina, deve essere in grado di utilizzare i computer, spesso addirittura li possiede ed è considerato formalmente lavoratore autonomo. Ma la capacità di utilizzare i computer si riduce a generica alfabetizzazione, mentre il lavoratore diventa un’appendice del software, da questo controllato e costretto, mentre, il più delle volte, la capacità di utilizzarlo, acquisita in pochi giorni e spesso sul campo, non garantisce una specifica qualificazione o professionalità.
In effetti, le schiere di lavoratori dei call center, o quelli che passano senza soluzione di continuità da un contratto trimestrale (se va bene) ad un altro, o i nuovi cottimisti a domicilio potrebbero ragionevolmente iniziare ad interrogarsi se effettivamente il problema è che non hanno, individualmente, le qualifiche richieste per altro (colpa loro!) o se, piuttosto, non sia il sistema produttivo nel suo complesso che, al di là di generiche capacità simboliche, di specifiche professionalità ormai ha bisogno limitato, cosicché le conoscenze acquisite con l’istruzione, o anche quelle specifiche sviluppate nei vari lavori, vengono tranquillamente disperse in un processo di appiattimento generico.
Varrebbe allora la pena riprendere il classico Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, ampiamente discusso negli anni ’70 e ’80, ma con riferimento soprattutto al lavoro operaio, almeno per due aspetti. Innanzitutto, perché è forse il primo libro che offra un’analisi dettagliata e approfondita anche dell’evoluzione del lavoro informatico, pur necessariamente facendo riferimento alla tecnologia disponibile in America negli anni ‘70. In secondo luogo, perché mette in evidenza alcuni elementi strutturali della produzione capitalistica che spingono alla sistematica degradazione e dequalificazione del lavoro. Il primo, l’aumento della produttività che si ottiene con la parcellizzazione del lavoro, resa possibile dall’aumentare delle dimensioni della produzione, già posto da Adam Smith a base della ricchezza delle nazioni. Il secondo, il cosiddetto principio di Babbage, per cui la parcellizzazione del lavoro consente di minimizzare i costi, perché il lavoratore più qualificato si concentrerà solo sulla lavorazione più difficile, mentre, per le altre lavorazioni, si potrà assumere personale meno qualificato, più a buon mercato.
La forza di questi due principi posti da Braverman al centro della sua analisi è che sono elementi strutturali, insiti nel nostro sistema di produzione, laddove le modalità attraverso le quali essi poi si estrinsecano a livello produttivo variano con la tecnologia in uso nello specifico momento storico (così, ad esempio, la possibilità tecnologica di coniugare controllo e decentramento ha permesso di superare il taylorismo).
Se dunque la parcellizzazione e la dequalificazione del lavoro, in tutte le sue forme, non sono un breve intermezzo della storia, una fase di transizione fra lo sviluppo della produzione di massa e quello dell’automazione nella quale la riduzione del lavoratore a appendice della macchina è stato un costo da pagare alla successiva liberazione dalla fatica e alla riconquista del lavoro come attività qualificata, bensì processi direttamente connessi alla massimizzazione della produttività e alla minimizzazione dei costi, ci si dovrebbe legittimamente tornare a porre il problema di un’agenda politica che riscopra la qualità del lavoro. Come acutamente sintetizza Ugo Pagano in un vecchio saggio sui Quaderni piacentini, «soltanto se le masse si riappropriano del potere di ideare e progettare i processi produttivi, ricostituendo, sebbene a un livello più complesso, l’unità di ideazione ed esecuzione, diventa possibile la realizzazione di una società realmente socialista e non solo formalmente democratica».

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