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La solida fragilità del soffio nel vetro

La solida fragilità del soffio nel vetroDale Chihuly, «Laguna Murano Chandelier», 1996 (Ph. Enrico Fiorese)

Glass Week Gli americani che imparano dai veneziani, le artiste infrangibili di «Unbreakable» e gli scenari della crisi

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 19 settembre 2020

Nel 1295, la Serenissima Repubblica di Venezia mise mano al trasferimento di tutte le fornaci per la lavorazione del vetro sull’isola di Murano: a spingerla furono senz’altro motivi di sicurezza (i disastrosi incendi) ma anche di astuzia mercantile: si creò così una specialissima di enclave che custodiva i segreti della lavorazione di quel materiale umile e pregiato insieme. Creare sistema, quindi, fu la carta vincente per un’industria manifatturiera che, nei secoli, ebbe momenti di assoluto splendore (con conseguenti cadute e appannamenti del settore dovuto per esempio alla competitività della Boemia), diffondendosi in tutto il mondo sia con gli oggetti legati alla quotidianità sia con sofisticati lampadari e specchi, destinati al fasto delle corti europee. Un maestro vetraio godeva di diversi privilegi e la sua posizione sociale non aveva nulla da invidiare ai nobili per nascita: poteva ambire al letto nuziale di una fanciulla di famiglia patrizia.

La Storia però ha i suoi corsi e ricorsi e, nel terzo millennio, Murano si trova a rivivere una crisi profonda che potrebbe ribaltarsi in una occasione di rilancio. Non è stata solo l’acqua alta o il lockdown a rendere tutto più difficile: uno dei problemi più rilevanti è quello del passaggio di testimone tra maestri vetrai e giovani apprendisti. Da quattro anni, esiste un istituto tecnico per la formazione di artigiani del vetro: qui istruzione e rete produttiva sono strettamente connessi e il livello occupazionale nelle fornaci e nei laboratori si è, in questi ultimi decenni, drammaticamente contratto. Non è diminuito tanto il numero delle aziende presenti (sono circa 150, di diverse tipologie, quelle più a vocazione industriale e di esportazione si riducono a una settantina) quanto quello degli addetti ai vari settori di lavorazione. Il dna muranese si biforca da sempre tra piccoli oggetti e vendita al dettaglio (anche di manufatti per la quotidianità) e grandi pezzi artistici con collaborazioni internazionali.

Per Luciano Gambaro, presidente del Consorzio Promovetro Murano, «l’isola nel futuro non tornerà più a essere quel che era con la produzione seriale di oggetti come bicchieri etc… Sarà un piccolo laboratorio che fa prodotti di alta qualità, dato che la serialità può essere offerta anche in altri contesti. Si va verso il prodotto unico e esclusivo. Murano – tramite fiere biennali mostre è sempre stata internazionale. Mia nonna già negli anni 50 partiva con la Camera di Commercio e stava via sei mesi tra New York e Buenos Aires: si facevano fiere di artigiani all’interno dei grandi magazzini di un tempo, producevano in loco, dal vivo, pagati benissimo. Dunque, il futuro è con l’arte e i designers, una volta chiuso il gap che si sta formando con un patto tra generazioni». Necessario sarebbe anche creare residenzialità, con apprendisti stranieri che restano e non riprendono il mare verso i loro paesi con il bottino preziosissimo di una sapienza in tasca.

Dalla mostra Lo Studio Glass americano

A non stare con le mani in mano, aspettando una commissione (ormai non si fa più «magazzino» pur se i forni sono sempre accesi, ma si lavora su richiesta del cliente) aiutano senz’altro iniziative come la Glass Week e le mostre che invadono la Laguna, accendendo un potente faro sull’antichissima storia del vetro che sempre si rinnova.

Uno dei processi di osmosi che più ha interessato l’arte muranese si è verificato nel secondo dopoguerra quando,, fin dai primi Sessanta, gli artisti statunitensi cominciarono a sbarcare sull’isola cercando di «soffiare» nelle trasparenze di quel materiale fragile, insieme ai maestri vetrai, il segreto di un mestiere illustre (e di un linguaggio caleidoscopico) che ha attraversato i secoli.

Venezia e lo Studio Glass americano (a cura di Tina Oldknow e William Warmus, visitabile fino al 10 gennaio 2021), diciottesima mostra del progetto Le Stanze del Vetro sull’isola di san Giorgio, allestisce un significativo palcoscenico – con circa 155 pezzi – di quella relazione intessuta di colpi di fulmine che legò saldamente due fucine creative separate dall’oceano e che non può liquidarsi con la narrazione corrente degli americani che «emulavano». I risultati non sempre furono impeccabili fin dagli esordi, ma artisti come Littleton (che imparò presso i fratelli Toso) tornarono in patria introducendo addirittura un corso superiore sulla lavorazione del vetro (università di Wisconsin-Madison) che cambiò le sorti di molti studenti. Da Venini invece si piazzarono Dale Chihuly e Richard Marquis (poi pure Benjamin Moore), grazie alla lungimiranza del patron Ludovico Diaz de Santillana. In molti arrivarono sulla scia di una borsa di studio. Chihuly salpò da New York nel 1968 e tre anni dopo, nel 1971, era già fra i timonieri esperti della Pilchuck, la scuola-atelier che ospitò anche gli insegnamenti in terra d’America di Lino Tagliapietra (colpito non tanto dalle tecniche, che giudicava «un vero disastro», quando dalla visione e dall’entusiasmo di quei giovani «apprendisti»). Sarà poi proprio Dale Chihuly a tornare a Venezia con le sue grandi sculture installate all’aperto, sorta di lampadari marini e magici dal peso di 500 chilogrammi l’uno.

Installazione Valenska Soares, Fondazione Berengo

Nella mostra è esposta la sua fiabesca creatura tentacolare Laguna Murano Chandelier del 1996, uscita dalle fornaci del posto, in collaborazione con la squadra dei soffiatori di Tagliapietra e Signoretto.
Ma l’arte vetraria è appannaggio solo degli uomini? Non proprio. Lo dimostra l’esposizione presso la Fondazione Berengo di Murano, a cura di Nadja Romain e Koen Vanmechelen: celebra il lavoro nelle fornaci di sessanta artiste che hanno collaborato con questa realtà nel corso dei suoi trent’anni di storia.

Ci sono i segmenti di corpo «costretti» in cinture e legacci (l’eredità pesante della tradizione) di Monica Bonvicini, le maschere reinterpretate con allegria di Lucy Orta per affrontare l’angoscia del lockdown reimmaginando un atlante dell’umanità che procede per somiglianze e sottrazioni, la torta nuziale sovrastata da una bomba rosa che preannuncia esplosioni psichiche e fisiche di Silvia Levinson. E poi l’immaginario dell’acqua alta rivisitato dai contenitori vuoti, rovesciati o con del liquido all’interno di Valenska Soares, fino all’omaggio incandescente rivolto al lavoro femminile di Federica Marangoni, prima artista a tornare nella fornace di Berengo Studio dopo il confinamento

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