Per molti anni Émile Durkheim è stato catturato in interpretazioni che ne hanno condizionato la lettura, sia che si trattasse di farne un precursore del funzionalismo, sia che venisse considerato un conservatore non privo di nostalgia per la società organizzata in corpi. Contro questa tradizione sociologica, il libro di Nicola Marcucci, Il dominio dell’ideale. Durkheim e la critica sociologica (Meltemi, pp. 240, euro 20) ne rivendica l’originale intenzione critica. Già affermare la possibilità di una sociologia critica, dopo che Niklas Luhmann che nel 1991 ne aveva dichiarato la fine, mostra il coraggio teorico che anima questo libro. Esso appare ancora più evidente di fronte alla tendenza contemporanea a considerare esaurita la stagione della critica, per inaugurare l’ennesima declinazione del post nella forma della postcritica. Quella di cui Marcucci rivendica l’attualità non è evidentemente la critica marxiana, che si schiera esplicitamente con le parti della società che ne contestano l’ordine. Egli rivendica piuttosto il carattere complementare tra la critica filosofica e quella sociologica, al punto che la seconda interviene proprio per risolvere l’impasse teorica e pratica della prima. Se la critica ha innegabilmente le sue radici nell’Illuminismo, la sociologia di Durkheim si presentata come una risposta al «disagio della critica» che deriva da tre cesure che si sono sempre più approfondite nel tempo: quella tra mente e mondo, quella tra volontà individuale e istituzioni collettive e, infine, quella tra l’autorità e la rivoluzione.

L’impresa sociologica durkheimiana va collocata storicamente all’interno di quella Terza repubblica francese che, dovendo elaborare il lutto della Comune, ritorna alla rivoluzione del 1789 per comprenderne gli effetti di lunga durata che non sono riducibili a singoli eventi. In questo contesto l’avvento della sociologia ha trasformato definitivamente i modi di pensare e praticare la filosofia. Essa non fornisce una descrizione della condizione presente della società, non si esaurisce cioè nella sua statica, ma solleva la pretesa di indagare e chiarire i processi all’interno dei quali si forma la vita morale della società, ovvero la sua autocomprensione. Essa produce così una costante opera di pedagogia politica, che rende i singoli consapevoli di quegli ideali sui quali si fonda la loro vita associata e che determinano le loro azioni. L’ideale è di conseguenza per Durkheim il reale oggetto dell’indagine sociologica, perché rivela ciò che sta mutando nella società; annuncia il nuovo se la critica è in grado di cogliere i modi in cui esso si discosta dalla normalità societaria.

La possibilità della critica è quindi insita nella stessa comprensione durkheimiana della società quale entità sui generis, che determina il nostro rapporto con il pensiero e interviene nella formulazione dei nostri giudizi. La critica, dunque, non dipende dalla facoltà di un soggetto di astrarsi dalle condizioni reali in cui vive per formulare un giudizio. Durkheim destituisce la sovranità dell’individuo quale fondamento della critica, trasformando la domanda su chi è il suo soggetto in quella sullo spazio in cui è possibile formularla. In questo modo la società viene affermata come l’ambiente che storicamente determina i giudizi e la loro razionalità che, a sua volta, non è più meramente individuale ma determinata alla comunicazione sociale che la produce.

Lo stesso intelletto dipende per Durkheim dalle rappresentazioni collettive che si sono sedimentate nel tempo, assicurandone una costituzione non meramente individuale. Il radicale mutamento di statuto della critica da parte di Durkheim si fonda così sulla registrazione, ampiamente indagata nei suoi studi sulla religione e la pedagogia, delle origini sociali del nostro pensiero. Alla base di questa complessa sociologia vi è dunque la ristrutturazione del concetto stesso di individuo grazie a una diversa semantica della persona, dalla quale viene cancellato il riferimento altrimenti centrale alla finzione, per farne una costruzione sociale e storica. Sottraendo il concetto di persona ai suoi profili storicamente giuridici, i diritti soggettivi non sono più concepiti come un’autolimitazione del potere dello Stato, ma piuttosto come un progressivo ampliamento e garanzia della socialità degli individui stessi. Lo Stato, inteso alla maniera pluralistica come un gruppo tra gli altri che formano la «società politica», dovrebbe essere «l’organo del pensiero sociale», mediando la produzione delle rappresentazioni collettive per muoverle verso l’uguaglianza che la divisione del lavoro tende a negare. In un serrato confronto con Hannah Arendt, Marcucci mostra che il concetto durkheimiano di autorità è pensato al di fuori del processo di autorizzazione che lo connota nella filosofia politica hobbesiana, per essere consegnato alla sua dimensione storica e sociale. Essa divien l’esito riconosciuto delle trasformazioni delle rappresentazioni collettive e non la struttura che esse tendono a delegittimare. La portata della tesi di Marcucci non si esaurisce sul piano epistemologico o disciplinare, ma conferma che la sociologia è diventata la forma contemporanea della teoria politica.